Il valore della reticenza

Lettera di Lucio Pozzi

da New York

 

Dieci italiani alla Bacca1010 Gallery di San Francisco

 

Un drappello di artisti italiani ha esposto in uno studio privato a New York. Poi la mo­stra l'hanno portata in formato più ampio alla Bacca1010 Gal­lery di San Francisco. Lucio Spinozzi era stato incaricato di portare le opere in USA. È la mostra più esoterica che abbia visto. L'idea è di Claudio Rug­gieri, un artista indefinibile. Per darvi un esempio, Claudio con­duce saltuariamente una galle­ria peripatetica che ha chiama­to Pinta Piuma. Di base è a Ge­nova ma te la ritrovi ogni tanto qui e là a Milano o altrove. Per le sue inaugurazioni manda non più di due dozzine di inviti agli amici e sostenitori e per la du­rata della mostra non è facile accedere al luogo che rimane ir­regolarmente chiuso per lunghi periodi. Dalle mostre singole o di gruppo, però, di solito si vedono venduti quasi tutti i la­vori. Claudio ha fatto della re­ticenza un valore e vanno da lui collezionisti che cercano pro­prio la forza che si scopre là do­ve la cultura incanalata non ar­riva. Gli artisti portati in Ame­rica erano: lui stesso con dei ri­tratti intensi a penna, Spinozzi con un'installazione, l'archi­tetto-artista forza sommersa della cultura milanese Corrado Levi con una stampa digitale su tela, e il geografo Luca Musca­rà con una mappa colorata. Quest'anno Muscarà ha anche scritto un saggio di presenta­zione alla piccola esposizione retrospettiva di Spinozzi alla Galleria Michela Rizzo di Ve­nezia. Mancava all' appello americano l'ispirato Giovanni Rizzoli, che nelle gallerie/arte di Ruggieri ha esposto molte volte e che avrebbe potuto es­ser incluso naturalmente. Rug­gieri dipinge pochi quadri al­l'anno, molto piccoli. Non mantiene uno stile formulaico ma segue !'ispirazione quando e come viene sia in astratto sia in allusioni figurative, come ca­pita. n resto del tempo pensa, visita amici in giro per l'Italia, guarda. Quando vedo come di­pinge configurazioni di viso umano, come d'altronde anche quando osservo le figure di Spi­nozzi, mi sorge immediato il ri­cordo della pittura di Joseph Si­ma, un pittore che penso questi due artisti con tutta probabilità non conoscano. Ecco come lo introduceva Roger Gilbert-Le­comte per una mostra circa del 1928 o '29: «Sotto il segno del­la Faccia Umana vi sono occhi inquieti che contemplano spec­chi inquietanti dove vivono i lo­ro volti delle profondità». Gli scrittori Gilbert-Lecomte e Re­né Daumal si incontrarono quindicenni sui banchi di scuo­la e poi fondarono con altri, fra i quali Sima, Roger Vaillant, Maurice Henry, il movimento Le Grand Jeu (Il Grande Gio­co), attivo con una rivista dello stesso nome e alcune esposi­zioni. Durò dal 1928 al 1932. I suoi membri s'erano attribuiti pseudonimi segreti e cercava­no tutte le occasioni, tutti i me­todi, dalla droga al digiuno, dal­l’amore all'astinenza, dal cam­minare a occhi chiusi in una fo­resta di notte al fermarsi in completa immobilità per ore, per scoprire e perdersi nella realtà che si nasconde dietro le apparenze. Le loro più forti in­fluenze furono Alfred Jarry, l'eccentrico ciclista scrittore inventore della Patafisica e le antiche filosofie mistiche del­l'India. I due fondatori moriro­no giovani rispettivamente nel 1943 e 1944. Quelli del Grand Jeu consideravano i Surrealisti come dei venduti. André Bre­ton, il guru surrealista, tentò di cooptarli ma si vide sbattere la porta in faccia. Non si può de­finire l'indefinibile come tenta­va di fare lui. Direi che l'unico compromesso che si concesse­ro in fondo fu di darsi un tito­lo. Vivere e operare sull'orlo del nulla attira da sempre certi artisti, si pensi ai maestri Zen o ai grandi pittori di oggi come James Bishop, ma qui succede qualcos' altro. Ruggieri e i tan­ti amici con i quali collabora esistono adesso, proprio quan­do il mercato è dominato dagli atteggiamentisti. Perfrno la re­ticenza può diventare un atteg­giamento pubblicitario, ma né lui né coloro che con lui mo­strano sono un gruppo. Non hanno nessuna ideologia este­tica in comune, non fanno nessuna dichiarazione. Non vogliono comprovare niente. Non rifiutano o programmano. Se tentano di spiegare, finisco­no per pappagallare frasi ovvie che non gli appartengono.

Sono rimasto molto preso dal rivedere le opere di Spinozzi a Venezia. Piccole cose dense di sensibilità. Non mi piacciono tutte ma l'onda della sua im­maginazione è inarrestabile. Egli non è alieno al gioco di pa­role duchampiano, come quan­do definisce il quadro «Morfeo all'inverno», 1999, esser fatto con «tecniche mistiche su allu­minio». Mi ha detto che preferisce farsi assumere per impieghi qualsiasi per sbarcare il lunario, pur di non diventar di­pendente dal mondo dell'arte. Fa gioielli che diventano scul­ture da portare o da mettere su muro. Quando passi, noti qua­si per caso che dall' intonaco esce un' esplosione metallica fatta d'oro scuro. Ex hippie, ex punk, Spinozzi lascia che la mente e la mano siano attivate dai giri misteriosi del pensiero e del tempo. A volte ritocca un quadro per anni. Lo incomin­cia, per esempio, lasciando co­lare del succo da due fichi po­sti sulla tela, come nel quadro “Erosamor”, 1996, per poi at­tendere e vedere cosa potrà mai rendersi necessario mentre pas­sano le settimane. Le macchie diventano due figure evane­scenti intorno alle quali si rive­lano ombre metafisiche che più le guardi e più diventano forti. Una tendenza recente in musica internazionale è il Freak Folk, prodotto da musicisti am­biziosi non di farcela alla gran­de in carriera ma di mantener­si piccoli per poter essere libe­ri. n loro suono può essere som­messo o gridato, ma tenta di stendersi in uno stato di ispira­zione. Hanno connotazioni mi­stiche ed evitano ovvietà poli­tiche ma poi dedicano tempo al lavoro comunitario di quartie­re, come fa il Théatre de la Cau­dron di Tanith Noble a Parigi. Vengono dalla musica più viva degli anni Sessanta e Settanta ma evitano con cura di imitar­ne gli atteggiamenti esteriori. Credo che ci siano molti artisti visivi simili, che si mostrano ma nel contempo si nascondo­no per non diminuire la loro in­tensità di autori e la nostra di spettatori.

 

(Il Giornale dell’Arte n. 260 – dicembre 2006)