PIPPA BACCA
La scultura
contemporanea sembra soffrire di un complesso di colpa al quale cerca
potentemente di reagire.
Soffre per il
suo ingombro, per il suo peso, per la sua forma irrimediabilmente conclusa, per
il suo essere solida per necessità, per virtù e per tradizione.
Il riscatto
dalle maglie di questa nevrosi di base avviene per molte strade: con la leggerezza
di un alito di vento e la mimesis naturale (Calder), con la compressione e l‘espansione
comandata della materia (César), con la caduta della plasticità nel gorgo senza
tempo e senza spazio di un organico immaginifico (Arp), con un apparente
ribaltamento concettuale delle leggi della percezione e della forma (Manzoni).
Pippa Bacca
con le sue opere indica un’altra strada, un altro sintomo che fa breccia nel
corpo incistato della tradizione.
Una strada
maestra che da Socrate in avanti percorre come un fiume carsico, talvolta in
piena luce, talvolta sotto terra, la storia trasversale della cultura umana: l‘ironia.
L’ironia è l’arma
della maieutica: attraverso di essa il reale, o presunto tale, si sfalda delle
sue superfetazioni per mostrare il lato nascosto delle cose.
Le opere di
Pippa Bacca spesso e volentieri giocano con i luoghi comuni dell’iconosfera
contemporanea, con i pregiudizi e i riflessi condizionati dei comportamenti
sociali.
La sua
dissacrante, seppur sempre sottile, tagliente spinta ironica, nasce da un
contrasto dialettico: l’uso dell’uncinetto, ad esempio, tradizionalmente
femminile e simbolo di un universo domestico di virtù, pazienza - ci verrebbe
da dire sopportazione - e sottomissione, diviene invece uno strumento di
potente rottura iconoclasta attraverso la creazione di patchworks fallici o
comunque esplicitamente ammiccanti alla sfera sessuale, talvolta giocati anche
in installazioni di natura ambientale.
Il corto
circuito di senso che queste opere inducono nasce dalla loro natura
ambivalente, dal loro essere insieme esorcista ed esorcizzato, dalla
compresenza di affezione e cura, di positivo e negativo: l’universo femminile
si svela nella sua complessità e nella consapevolezza del suo processo storico
attraverso un’analisi autoreferenziale delle sue determinazioni.
In questa luce
l’opera di Pippa Bacca si inserisce in quel vivacissimo corso dell’arte
contemporanea che ha avuto nel tema dell’essenza femminile, per usare un noto
termine psicoanalitico, uno dei sui principali oggetti di riferimento, ed ha
trovato proprio nell’opera di artiste donne la sua principale voce d’espressione.
Lo
testimoniano, dagli anni sessanta, le esperienze performative di Carolee
Scheeman, Yayoi Kusama, Yoko Ono e Shigeko Kubota, fino agli anni settanta con
gli interventi di Leslie Labowitz, Valie Export, Ulrike Rosenbach, Lynda
Benglis e Gina Pane, sulla scorta delle teorie filosofiche-psicoanalitiche di
Luce Irigaray.
Questo accenno
alla studiosa francese, allontanata per le sue teorie dissidentidalla lacaniana
Ecole Freudienne, non è espresso a caso in questa sede: le opere dell’artista
che presentano sagome di organi sessuali femminili e maschili, ritagliate e
viste in controluce, in una serrata dicotomia tra positivo e negativo, sembrano
infatti voler riproporre uno dei cardini di Speculum, l’opera della Irigaray
che nel 1974 segnò un punto di non ritorno nella elaborazione teorica di quello
che Virginia Woolf aveva chiamato “lo sguardo sulla mia stanza”.
Poiché il
nostro pensiero poggia per tradizione filosofica sul principio e sul predominio
dell’Uno, sull’identità, ci riesce impossibile teorizzare all’unisono un sesso
e l’altro se non nella forma della specularità negativa, della sottrazione
della mancanza, con la seguente conseguenza: da Platone a Lacan, se il sesso
maschile è, quello femminile semplicemente non è.
L’analisi che
Pippa Bacca suggerisce con le sue opere da invece conto del coinvolgimento in
prima persona della donna, della sua complicità culturale, ma anche del sistema
di impossibilità che si oppone ad una sua piena autorappresentazione.
Lo stesso
processo dialettico si ritrova anche nelle opere più recenti dove il tema del
denaro, elaborato in curiosi festoni di cartamoneta ritagliata a mano in forma
di angeli festanti, suggerisce un ripensamento sull’antinomia tra sacro e
profano, su come questi due poli siano troppo spesso confusi insieme senza
alcuna distinzione auxologica.
Queste opere,
nella loro portata concettuale, permettono all’artista di opporre infinite
varietà contradditorie, portando chi le guarda al dubbio, fino alla
consapevolezza di una crisi, di un dissidio o dell’incostanza di un giudizio
aprioristico supinamente accettato.
La loro virtù
sta nella loro modestia, non indicano infatti la verità assoluta, ma inficiano,
falsificano alcune delle molte verità relative che ci circondano, incrinano le
mura di Gerico delle formule cristallizzate e tastano il polso con
determinazione ai processi dello psichismo soggettivo e sociale.
Gianluca Ranzi