AGNETTI E CHIARI
Che il pendolo dell'arte oscillasse verso il freddo è cosa - da un anno a questa parte - generalmente avvertita. Si tratti, come sostiene Achille Bonito Oliva, di un mutamento di temperatura interno alla logica della Transavanguardia, o del pieno dispiegarsi dell'Inespressionismo indagato da Germano Celant o, ancora, del manifestarsi di una Terza Avanguardia, un tale sommovimento apre comunque spazi di riflessione storica (accompagnati di consueto da apprezzabili rialzi di mercato) che riportano in luce autori d'importanza già asseverata, la cui opera entra a far parte della "genealogia" della generazione artistica che sale alla ribalta.
E' probabilmente questo il caso di Vincenzo Agnetti (scomparso nell'82) divenuto nell'ultimo scorcio di stagione oggetto di un rinnovato interesse espositivo (Lia Rumma a Napoli, Martano a Torino, Carla Pellegrini a Milano), ora a Genova allo Studio Leonardi, e di Giuseppe Chiari presentato nuovamente nella nostra città da Martini e Ronchetti.
L'accostamento proposto dalle due gallerie che, rinnovando l'esperienza condotta lo scorso anno in occasione della retrospettiva di Pinot Gallizio (che, notiamo per inciso, sarà fra i protagonisti della rassegna che il Centre Pompidou si accinge a dedicare all'Internazionale Situazionista, la cui inaugurazione è prevista per il 22 febbraio prossimo), trova la sua ragion d'essere non tanto in un'asserita affinità fra i due autori - al di là dell'appartenenza ad un ambito latamente concettuale - quanto nella centralità delle rispettive esperienze, condotte in un arco temporale che principia nei tardi anni '50, rispetto alla vicenda artistica della seconda metà del secolo.
Connotato dapprima da un esercizio prevalentmente letterario (che sfocerà nella pubblicazione presso Scheiwiller di "Obsoleto", la cui prima composizione risale a 1962) il percorso di Agnetti si svolge, nella sua prima fase, negli ambienti di Brera e del Piccolo Teatro, fra compagni di strada d'eccezione come Piero Manzoni ed Enrico Castellani, con i quali partecipa, in veste soprattutto critica, al gruppo Azimuth.
Lasciata Milano per qualche anno vi rientra nel 1967, intraprendendo un'attività artistica incentrata sulla "pura analisi di concetti, proposizioni e teoria operante" di cui lo Studio Leonardi ripropone episodi significativi, quali gli excerpta della "macchina drogata" (1968), una calcolatrice manomessa sostituendo caratteri alfabetici a quelli numerici ordinari che dà luogo ad una scrittura ove gli aspetti del senso e della comunicazione risultano soppressi.
Opera lucidamente "negativa" (cosi' come altri lavori in mostra, quali il "Libro dimenticato a memoria" (1969) delle cui pagine restano solo i contorni ed "Autoritratto", costituito da una radiografia toracica) della quale una successiva sentenza ("In principio era la negazione in attesa dello stupore") sembra fornire l'interpretazione autentica chiarendo nel contempo come l'azzeramento operato dall'artista costituisca altresė condizione indispensabile per la scoperta di accessi a significazioni inedite.
Per Chiari, formatosi nel vivace ambiente fiorentino del dopoguerra, dove - come ricorda Enrico Pedrini - i compositori vivevano a contatto con i teorici della fisica quantistica, l'impulso di partenza si colloca nell'ambito musicale, in cui attua un radicale slittamento verso il suono non codificato (o, secondo quanto scriveva Heinz Klaus Metzger, una "rivoluzione della parola contro il canto e del rumore contro il suono").
Lungo questa direttrice, che sviluppa indicazioni delle avanguardie storiche, in specie futuriste, l'opera di Chiari viene ad intrecciarsi con la sperimentazione di Fluxus (i cui membri riprendevano, attraverso la mediazione di Cage, stimoli di analoga matrice): la sua adesione al gruppo rimonta al '62, con la partecipazione al Festival di Wiesbaden.
Dal perseguimento (condotto anche attraverso quel cerimoniale di messa a morte dello strumento-simbolo che è "Gesti sul piano") di una "musica facile" la ricerca di Chiari è venuta diramando, nello scorso decennio verso la performance e la provocazione concettuale (tenuta per lo piu' sul registro dell'understatement con asserzioni del tipo: "l'arte è una piccola cosa") segnando uno dei percorsi forse meno plateali ma più attenti al possibile, nella convinzione che l'arte sia tale "in quanto si pone come costantemente variabile, costantemente variabile in quanto viva", in un mondo che "significa già da solo" ma "ha bisogno anche del tuo gesto" perche' non è - infine - che "la somma dei gesti".
s.r. (1989)