Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





NOTE PER UN ERBARIO MUSICALE
(FERNANDO ANDOLCETTI)


Il reciproco inseguimento fra visualità e dato musicale - una sorta di quête non altrimenti fascinosa che impervia - è stato condotto, nell'arco dell'ultimo secolo, da stazioni e lungo tracciati assai diversi, seppure occultamente convergenti.
Ai compositori (da Earle Brown a Morton Feldman, da Stockhausen a Francis Miroglio) che, muovendo da un lato di questo poligono, insolito e nondimeno regolare, hanno sviluppato in senso grafico i sistemi di notazione, fanno riscontro - sul versante opposto - artisti la cui opera pittorica s'è alimentata a matrici musicali (Mondrian con "Broadway Boogie-Woogie", 1942, Milan Grygar con i "disegni acustici" degli anni '60, per citare due episodi soltanto di una vicenda ben altrimenti complessa).
Analogamente speculari si sono rivelati gli esiti delle sperimentazioni svolte con l'impiego di congegni appositamente predisposti, con il "piano optofonico" (1926) di Vladimir Baranoff Rossiné ove il suono governa il movimento d'un fascio di luce attraverso filtri colorati, prismi, lenti, specchi, vetri riportanti elementi grafici o, per converso, con i tentativi di scrittura sonora di Pfenninger (1918) o la "Kangaroo-Pouch-Flying-Disc-Paper-Graph-Mode-Machine" realizzata nel 1955 da Percy Grainger nell'intento di tradurre il disegno in vibrazioni musicali.
Per non dire delle ricerche imperniate sull'uso del suono come materiale plastico, per la creazione di ambienti, ironicamente preconizzate da Satie con la "musique d'ameublement" (1917) e perseguite da Vostell (che nel '64, proponeva un aeroporto militare come sala da concerto) e da Brian Eno, in antitesi con esperienze, esemplificate da talune performances di Takako Saito, ove è l'elemento plastico - rappresentato da piccoli cubi di carta da far cadere al suolo - a produrre una musica silenziosa.
Questa costruzione, tanto simmetrica e bilanciata (benché non così seriosa come potrebbe apparire al primo sguardo), merita senz'altro d'esser messa a scompiglio. All'uopo, più delle colères di Arman, sezionatore di pianoforti, o degli equipollenti exploits di Paik e Maciunas, distruttori di violini, risulta efficace l'arma del witz, dell'arguzia che sa valersi dell'espediente retorico per traversare due volte, avanti e indietro, il ponte fra i territori visivo e musicale. Un ponte che forse non c'è, se - come sostiene Milan Knizak - le due discipline vivono, contigue, allo stesso livello ma che incorpora l'idea di spostamento, d'associazione e d'illuminazione vicendevole di forme espressive differenti.
Così il lavoro di Fernando Andolcetti si presenta come fuoco d'artificio, capace di esibire, volta a volta, la citazione disarmante ("Tre pezzi in forma di pera", 1989, dall'omonima opera di Satie), il gioco di parole (Schubert evocato attraverso un paio di scarpette - schuhe in tedesco - decorate con brani di spartito, in "Schu-bert"), lo scambio metonimico, in "Ouverture" (1992), ove la forma musicale viene enunciata attraverso il profilo d'una cassa armonica, ottenuto accostando in una sorta di quinterno fogli variamente screziati. Veline atteggiate a violini, materiali effimeri e ready made (si tratta in realtà di tovaglioli di carta) modificati in rese pittoriche altrettanto preziose che irreali. Strumenti da sfogliare con un dito amabile e sorridente; sonorità da inventare, dischiuse da un'ouverture immaginaria. O da classificare, come s'ipotizza nell'"Erbario", di foglie stese a velare fogli sagomati a mo' di foglie, lasciando emergere, in trasparenza, il tratto ancipite dell'operazione, l'aderenza e l'irriducibilità dei due termini da cui affiora, Satie docet, uno stupore opportuno e naturale.

s.r. (1995)





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