ROBERTO ANFOSSI
L'idea (o il risultato) che Roberto Anfossi persegue nel suo lavoro non è - come per molti figurativi contemporanei - quella dell'effetto illusionistico, dell'immagine seducente ma fine a sé stessa, della citazione colta; è piuttosto (per impiegare un'espressione consacrata da Derrida a partire da uno spunto cezanniano) quella della "verità in pittura".
Non si cura perciò dello "stile", né esegue e memoria: scava (come negli autoritratti senza numero) l'evidenza sino a renderla assolutamente visionaria, sino a farne emergere il fantasma che vi è imprigionato.
Non bisogna però credere che ciò implichi un'arbitrarietà fuori luogo. Pur nella forsennatezza che lo spinge ad accumulare la materia pittorica sulla tela. Anfossi rimane sostanzialmente consapevole della validità dell'affermazione di Maurice Denis secondo cui un quadro "non è che una superficie coperta di colori disposti in un certo ordine", ancorato all'essenzialità della "tenuta".
Se l'umore può indurlo a testimoniare una joie de vivre affatto bonnardiana, come in alcuni paesaggi di recente eseguiti alla finestra, i soggetti che più profondamente lo attraggono sono luttuosi, acconci ad un esperimento di dissezione della realtà che ne scopre brutalmente la natura, al di là di apparenze e infingimenti. Così nella splendida sequenza degli "Angioletti" (questi putti le cui fattezze s'irrigidiscono in pose forzate, trasfigurati dalla patina aurea, emblemi - nel contempo - d'Eros e Thanatos) abbandona gli sfondi rosso-cupi perché troppo gradevoli (e, di conseguenza, ambigui) per affondare ogni cosa in una sorta d'oscura membrana palpitante.
E' la sua (per ricordare una frase di Argan) "una deliberata, atroce defigurazione" in cui s'avverte - senza peraltro distinguerlo chiaramente - il peso della frequentazione di modelli come El Greco, Soutine, Scipione e, in specie, di Bernard Damiano, straordinario pittore di ascendenza cuneese, attivo fra Parigi e Nizza, di cui Giovanni Testori ha da tempo intrapreso una meritoria, benché forse non disinteressata, rivalutazione.
Negli spazi violentemente fisici di Anfossi la voluttà della disgregazione e l'esigenza di saldezza nell'impianto compositivo si confrontano, esercitando sulla figura una pressione riduzione cromatica, con un uso spasmodico dei contrasti che ci riporta alle parole dell'ultima lettera di Nerval, all'evocazione drammatica della notte, "nera e bianca".
s.r. (1986)
Che la deformazione - così come l'esasperato accumulo di materia pittorica, l'acuirsi d'intensità del colore, il lavorio di sovrapposizione e asportazione di ritagli di tela - costituisca una delle fondamentali modalità del pathos, è palese. Di per sé, tuttavia, non ne misura l'autenticità. Questa risiede, piuttosto, nel tentativo d'inchiodare il soggetto effigiato (sia esso figura umana o cosa inanimata) alla sua verità. Nell'esperire - e superare - la rappresentazione attraverso il riconoscimento di una realtà abissale, parallela, in cui pulsione ed interiorità pervengano ad un'esemplare manifestazione visiva.
Si tratta, secondo un'espressione kandinskiana, di richiamare ad essere ciò che sinora non è mai stato. O, per contro, di riportare costantemente la pittura al suo inizio. Il tema reiterato dell'autoritratto non assume perciò i contorni dell'ossessione, se si vuole narcisistica, bensì quelli di indagine senza possibile conclusione intorno alla fisionomia profonda dell'artista intesa come tramite rivelatore del reale: via d'accesso ad un nuovo mondo. Ciò implica una radicata consapevolezza dell'inesauribilità della fonte, della rinnovazione implicita nell'atto di ripetere. E, al tempo stesso, una vocazione che non si ponga come unico obiettivo la riuscita estetica, che sappia attraversare tutte le concepibili designazioni formali senza depositarsi in nessuna.
Si tratta (non è in fondo il carattere dell'operazione artistica in quanto tale, qui reso peculiarmente esplicito?) del passaggio dall'uno al molteplice - evidente nel susseguirsi delle versioni di un medesimo soggetto - e di ricondurre ad unità, nella pittura, ogni singola esperienza percettiva. Di aprire sempre nuovi canali comunicativi fra il sé e l'io (un "io" irriducibilmente singolare ma, proprio per cò, in grado di attingere valenza universale).
s.r. (1987)
DOMANDE/RISPOSTE/DOMANDE
"L'arte non imita" - è stato scritto - "perché anzitutto ripete e ripete tutte le ripetizioni per conto di una potenza interiore" (Deleuze). La ripetizione è d'altronde un atto felice: un "ricordare in avanti" (Kierkegaard che trasforma ciò ch'è stato in divenire, con un movimento che incorpora la differenza, manifestandosi come un fare di nuovo che è, insieme, un fare nuovo.
Nel caso di Roberto Anfossi la ripetizione non si palesa in termini di dipendenza o riflusso verso questo o quel precursore: l'opera con la quale istituisce un contatto diviene una sorta di reagente che gli consente di scoprirsi; non un testo cui attenersi o da mis-interpretare, dunque, piuttosto un ulteriore, radicale interrogativo. Il dispiegarsi d'una molteplicità di linee d'investigazione - in un arco che da Munch e Soutine si estende, attraverso figure poco note da noi quali Gen Paul e Bedarride e frequentazioni dirette come quella di Bernard Damiano, sino ad Auerbach ed Anzinger - non riflette perciò una disposizione eclettica e neppure un meccanismo per controllare, disperdendo i riferimenti, il fenomeno che Bloom ha denominato "angoscia dell'influenza". Al contrario possiamo leggervi l'intento di disciplinare, attraverso l'analisi dell'operatività di altri artisti (e non soltanto di quelli dianzi nominati, riconducibili ad un ambito di "defigurazione") un'urgenza espressiva prossima a quella dell'automatismo fisico, necessariamente impuro (destinato cioè ad entrare in relazione con le realtà del gesto e della materia pittorica) contrapposto da Jorn a quello - psichico - preconizzato d Breton, che rappresenta il dato originario della sua esperienza.
L'autoritratto costituisce il soggetto che forse meglio evidenzia il carattere "interminabile" del lavoro di Anfossi, discendente non da un'ossessiva ricerca d'identità né dal perseguimento di un esito, per così dire, assoluto, ma proprio dallo schema che contraddistingue la sua ricerca, imperniata - come s'è accennato - su un continuo scambio funzionale fra interrogazione e replica, in una concatenazione di domande/risposte/domande tendenzialmente illimitata.
s.r. (1989)