FRANCO ANGELI
Sono trascorsi ormai venticinque anni da quando Cesare Vivaldi presentava su "Il Verri" la giovane scuola di Roma, una nuova generazione di pittori "assai interessante, sia per il valore delle singole personalità sia per il significato che il loro lavoro, preso in blocco, assume nel contesto della giovane pittura italiana e mondiale", della quale facevano parte - insieme a Franco Angeli, la cui mostra in corso presso la Galleria Rotta costituisce lo spunto di questo scritto - artisti come Umberto Bignardi, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Mario Schifano e Cesare Tacchi.
La portata di questa esperienza è riscontrabile a posteriori dalla vicenda di coloro che vi sono stati coinvolti: dall'affermazione internazionale di autori come Kounellis o Schifano così come dalle qualità funamboliche degli ultimi esercizi pittorici di Tano Festa, scomparso di recente, cui nel dicembre scorso lo Studio Ghiglione ha dedicato una vasta personale o dalla ricerca comportamentistica e relazionale condotta da Sergio Lombardo nell'arco degli anni '70, nella quale risiede probabilmente la matrice di talune delle sperimentazioni concettuali in atto.
Nelle opere presentate da Rotta, Angeli sembra proseguire e, per certi versi, portare all'estremo quel carattere "antinaturalistico, spietato e nitido, senza espressionismi, senza soggettivismi e senza sbavature sentimentali" che Vivaldi già rilevava nel testo più sopra citato.
Gli obelischi, i cieli stellati, le sagome burattinesche, le vegetazioni di cui ci viene proposta l'immagine dipinta (si potrebbe addirittura dire verniciata) in colore compatto, senza risonanze, e come "ritagliata" da un contorno sottile, paiono estranei a qualunque connotazione individuale, consegnati - attraverso una radicale riduzione schematica - ad una sorta di artificialità assoluta.
Marisa Vescovo puntualizza, in catalogo, l'affinità procedurale e tematica del lavoro di Angeli con la pittura di De Chirico (riferendosi in particolare alle "Piazze d'Italia" ed ai "manichini") e l'interpreta come sguardo "spietato nel cogliere la desacralizzazione della società e dell'esistenza".
Come un tentativo di "rinunciare alla riflessione" per raggiungere paradossalmente una conoscenza "ignara di sé stessa, una grazia non più umana, sovrumana" capace di resistere a disincanto ed al vuoto del mondo.
s.r. (1988)