ARCHIPALLO
Un cancello che dà su un muro bianco. Due arbusti, la cui forma esatta richiama il cono, immettono in una falsa prospettiva, invitando ad un'impossibile ingresso. Dalla parte opposta, una finestra, la cui superficie trasparente è attraversata da un foro ellittico, risucchia la parete verso una sfera vegetale. "Qualcosa di allettante e, insieme, di vuoto", ci viene suggerito : "qualcosa che sfugge all'astrazione. Potrebbe benissimo trattarsi dell'imitazione perfetta".
Il mondo in cui Irene Fortuyn (che mantiene nella sigla il nome di Robert O' Brien, scomparso giovanissimo nella scorsa primavera, il giorno stesso dell'inaugurazione della loro mostra al Museo di Saint-Etienne) ci introduce è il "mondo delle copie", un mondo inscenato nell'immobilità della finzione, in un pittoresco neutralizzato, ove la menzogna ornamentale appare scarnificata, ridotta ad un'essenzialità schematica.
In "Archipallo", l'installazione presentata da Locus Solus, come a Venezia quest'ultima estate (nella mostra della giovane scultura olandese a Palazzo Sagredo, collegata alla Biennale che ospitava Fortuyn/O' Brien anche in "Aperto '88") il riferimento va allo spazio che congiunge l'immediatezza del naturale all'artificialità più elaborata: il giardino definito attraverso un'immagine parziale che implica tuttavia - come rileva Patrick Javault - "la presa in carico da parte dello spettatore della totalità di una situazione", di un'immagine che, si può dire, "produce il proprio contesto".
Se la riconoscibilità del soggetto risulti funzionale a ciò che, in Mallarmé, Valery individua come "lavoro d'intreccio sulla forma" o se si tratti invece dello strumento necessario per instaurare - secondo l'opinione di Gijs Van Tuyl - un "confronto illusione-realtà" che coinvolge "i codici dei nostri schemi condizionati culturalmente", confondendo lo spettatore e smontando interpretazioni inequivocabili, non è determinante stabilire.
Ciò che si manifesta innanzi ai nostri occhi non è la freschezza o l'ambiguità dell'arte o, al limite, la sua cecità. E' la "ripetizione pura e semplice" che diviene "pura invenzione", evidenza d'una memoria insieme intima e universale.
s.r. (1988)