ASIART: LABIRINTI A VILLA CROCE
Dall’avanguardia alla mondializzazione: potrebbe
definirsi così, schematicamente, il processo che l'arte sta vivendo, nel
trapasso da un secolo (e da un millennio) all’altro. Alla ricerca del nuovo,
che lungo tutto l'arco del '900 ha animato gli artisti, sembra essersi
sostituito, negli ultimi anni, un arricchimento di motivi indotto dall'ingresso
sulla scena internazionale di un numero sempre maggiore di artisti provenienti
da bacini culturali in precedenza estranei ai circuiti espositivi americani ed
europei.
Mentre nell’ultimo scorcio dell’Ottocento erano gli
artisti occidentali, da Toulouse-Lautrec a Van Gogh, a trarre linfa dalla
pittura giapponese e Picasso, poco dopo, inglobava nel suo lavoro tratti del
primitivismo africano, oggi la tendenza sembra essersi rovesciata. Al presente
sono gli artisti asiatici ed africani a rielaborare – da un punto di
osservazione coinvolto ma, nel contempo, divergente – la vita delle forme
diffuse fra Europa ed America. Così che non sarebbe improprio evocare una sorta
d’esotismo alla rovescia, forzando il titolo di una delle rassegne che meglio
hanno messo a fuoco queste problematiche: “Partage d’exotismes”, allestita a
Lione lo scorso anno da Jean-Hubert Martin.
In questa linea, Genova – sovente più sensibile di
quanto sembri alle trasformazioni epocali – può vantare, se non un primato, una
tempestività che va ascritta a merito del CE.L.S.O., promotore di Asiart,
Biennale d’arte contemporanea dei paesi asiatici giunta alla seconda edizione,
come degli Enti territoriali genovesi e liguri che l’hanno sostenuta.
“La cultura cinese è il sangue che scorre nelle mie
vene” - dichiara Yufen Qin, un’artista arrestata nel 1989 in occasione di una
mostra tenuta poco prima delle manifestazioni studentesche di Piazza Tienanmen,
represse dall’esercito, e in seguito trasferitasi a Berlino - “ma il mondo
occidentale è l’aria che respiro”. A
Villa Croce, dove si è inaugurata ieri la prima rassegna della manifestazione,
sul tema del labirinto, questa autrice
presenta un’installazione, “Vento senza parole”, in cui decine di ventagli sono
sospesi al soffitto entro una gabbia di bambù, in un insieme articolato su tre
fattori essenziali: “silenzio, meditazione e poesia”. Un labirinto
dall’equilibrio precario, all’opposto di quello saldamente costruito dall’irakeno Mehdi Moutashar su
una pianta ricavata da un vocabolo che, nella scrittura cufica, indica
l’”elevato”, “il senza nome”, e qualifica l'opera come virtuale dimora del
divino.
Una struttura lineare in metallo, sospesa a
mezz’aria, quasi dipanata a forza da un intreccio serrato, costituisce la prova
suggestiva della coreana Ok-Joo Shin. In una direzione ancor più minimale, in
rapporto con l'estetica zen, si muove il giapponese Sato, sospendendo obliquamente
un bambù su una superficie di ghiaia. Pinaree Sanpitak, thailandese, scadisce
lo spazio con una sequenza di teli di colore digradante dal nero al grigio, nei
quali, rarefacendo la trama del tessuto, ha ricavato profili di seni femminili,
apparentati nel titolo e nella forma allo “stupa”, oggetto buddista che
simboleggia la trasformazione dell’esperienza mondana. Se questo lavoro,
destinato ad essere in seguito esposto al Fukuoka Asian Art Museum, forse la
più importante sede istituzionale giapponese dedicata all’arte contemporanea,
si lega prevalentemente al retaggio della cultura orientale, la dialettica con
le influenze occidentali viene ripresa dal coreano Sejoong Yoo, che fa
riflettere dall’acqua contenuta in una vasca, alternate, immagini di personalità
centrali di entrambe le tradizioni, come Buddha e Nietzsche. Entro un analogo
orizzonte si colloca “Temple of Exoticisms” del cinese Wenda Gu, che dispone in
una sala mobili ricavati accostando componenti cinesi ed europee (Ming e Luigi
XV), contornati da cortine di capelli
umani sulle quali compaiono testi realizzati combinando caratteri latini,
arabi, cinesi ed indiani.
L’impiego di elementi calligrafici caratterizza
anche il lavoro di Norio Nagayama, che sospende teli lunghi sette metri sopra
il vano d’ingresso, e le elaborazioni al computer di Luming Li, ove ideogrammi
rossi costellano inquietanti figure tubolari incluse in un paesaggio cinese
tradizionale.
Concentrata sull’immagine mediatica, su un divismo
cinematografico che assimila Bombay ad Hollywood è invece l’installazione di
Monali Meher, indiana, che presenta una serie di pannelli retroilluminati con
sgargianti foto di scena e manifesti in cui al volto del personaggio
raffigurato l’artista ha sostituito il proprio, tracciando una sorta di
percorso fra identità immaginarie.
Ancora il tema del labirinto affiora nel lavoro
della coreana Eun-hee Cho, una delicata selva di nastri di carta bianca sospesi
al soffitto, e nella videoscultura del suo compatriota Kang che propone,
attraverso il monitor, una sorta di dedalo elettronico. Un tono più ludico
distingue l’assemblaggio messo in opera da un altro coreano, Park, che applica
alle pareti e sul pavimento frammenti di sculture con un acuto effetto di
spiazzamento.
A chiudere idealmente la rassegna è un ambiente di
grande fascino creato da Qikai Zhang: un lago attraversato da una passerella
fiancheggiata da due riquadri stillanti acqua, sui quali vengono proiettate,
con effetto illusorio, immagini di una tela fugacemente sollevata dalla pressione
leggera di una mano. Una successione di gesti e di energie elementari che
riprendono, in un contesto e con una strumentazione attuale, l’antica lezione
della pittura cinese, “assumendo in sé – come scrive François Cheng nel
classico “Il vuoto e il pieno” – “il ritmo e le segrete pulsioni dell’uomo”.
s.r.
(settembre 2001)