CENTENARIO ANTICIPATO PER
NICOLO’ BARABINO
Davvero strana la questione
dei centenari, a Genova. Della ri-correnza plurisecolare della morte di Luca
Cambiaso si ebbe, cinque anni or sono, assai flebile memoria. Il
cinquecentesimo anniversario della scoperta colombiana è invece in atto da
almeno un quinquennio e promette d'intrattenerci ancora a lungo con il
composito miscuglio di manifestazioni che ad esso - fondatamente o meno -
fatalmente finiscono per connettersi, da mostre (queste, va precisato, serie)
sull'emigrazione dei liguri verso le Americhe ad orchestre non precisamente
brillanti, dai resoconti di spedizioni all'Antartide alle parate per le vie
cittadine.
Ma se il folklore
colombiano (bilanciato d'altronde da interventi urbanistici nel bacino portuale
di non scarso rilievo) costituisce comunque un caso a parte, che palesemente
travalica l'ambito di competenza di questa rubrica, non mancano nel campo delle
arti visive recenti esempi di celebrazioni intempestive.
Mentre Leonardo Massabò,
figura centrale della cultura pittorica del secondo Ottocento nel Ponente
Ligure, viene ricordato con un ritardo d'un paio d'anni - compensato peraltro
dall'associarsi di manifestazioni e studi, rispettivamente rappresentati dalla
mostra imperiese dello scorso dicembre e da un volume pubblicato per iniziativa
del Servizio Beni Culturali della Regione - per Nicolò Barabino, pictor
optimus di una metropoli in pieno decollo industriale, si gioca invece
d'anticipo, prevenendo di svariati mesi la ricorrenza con "Il segno in
trappola", una mostra organizzata per la Cassa di Risparmio di Genova e
Imperia da Tiziana Leopizzi Cerruti, aperta al Centro Incontri di Piazza
Faralli sino al 10 maggio prossimo.
L'esposizione, il cui
nucleo centrale e' formato da lavori (taccuini, schizzi, studi a vario livello
di elaborazione, bozzetti e modelli ad olio) di proprietà dell'artista,
passati alla morte di questi, sopravvenuta a Firenze il 19 ottobre 1891, ai
congiunti, si prefigge l'obiettivo di "offrire in visione al pubblico una
parte di quella messe di abbreviate annotazioni grafiche che - secondo quanto
puntualizza Giuliana Biavati nel saggio introduttivo al catalogo, che si avvale
anche di un testo di Emilia Marasco e di schede di Pier Francesco Bruzzone e
Antonella Ratschuler - si (pro)pongono in una dimensione di libera ed autonoma
espressività rispetto all'opera finita, mentre consentono di coglierne il
travagliato divenire".
Non si tratta, perciò, d'un'antologica vera e propria, sia pure in tono minore, ma d'una rassegna che aspira a focalizzare l'attenzione sul "laboratorio" di un autore che - pur rimasto sempre (e per scelta, dato che nell'ambiente fiorentino dove si trovò ad operare non mancavano certamente stimoli novatori) "sul versante dell'arte del consenso", legato ai modelli esausti delle composizioni d'argomento storico e della ritrattistica d'impianto accademico - mostra in questa sua produzione più intima una "raffinata sensibilità di colore, un pensoso sentimento delle cose" (G. Bruno) che lo riscattano dall'addebito di tecnicismo pseudo-moderno mossogli da Maltese.
Del conflitto tra il canone
rappresentativo del "genere" praticato e le esigenze di natura più
strettamente pittorica l'artista fu d'altronde ben conscio, tanto da scrivere
a Carlotta Popert, in una lettera citata dalla Biavati: "Morelli e
Michetti e tanti altri napoletani sanno più dipingere che comporre. I quattro
pittori storici premiati a Torino (nel 1880. Fra questi era il Barabino con il
suo "Galileo in Arcetri") sanno più comporre che dipingere. Sono così
persuaso di ciò che da ora innanzi tutte le mie opere saranno impiegate a saper
mettere luce, vita e rilievo, a saper essere più pittore che compositore".
Un proposito
senz'altro presente nell'ultima fase della produzione barabiniana (si veda in
mostra, a titolo d'esempio, il bellissimo olio della "Nutrice",
attribuito proprio al 1880/81) ma non portato all'estreme conseguenze, ne'
assistito da una produzione - sia pur non divulgata vivente l'autore - di mole
tale da suffragare l'ipotesi critica di un Barabino segretamente anti-ufficiale
od accademico malgré soi, a prezzo d'una funesta coartazione del
proprio naturale talento espressivo.
Ma proprio perché l'idea
delle "due voci" contraddittorie dell'artista non pare sostenibile,
la sotterranea, costante inquietudine pittorica (che si riflette, anche, nei
materiali ora esposti del suo "laboratorio") può divenire il motivo
centrale di quella riconsiderazione
dell'arte di Nicolò Barabino nella sua globalità per cui - come la Biavati
osserva al termine del suo scritto - i tempi sembrano realmente maturi.
s.r. (1990)