PIER GIULIO BONIFACIO
Frazionata in gruppi legati a poetiche divergenti, la scena pittorica italiana dei primi anni Cinquanta presentava nel solo ambito della ricerca non figurativa (contrastata, nel suo insieme, dal contenutismo ideologico dei neorealisti) una grande varietà di opzioni, saggiate talvolta con entusiasmo ancora ingenuo (è il caso dell'astrazione postcubista originariamente seguita dai giovani romani di "Forma 1" come dell'esplosione informale dei "nucleari" milanesi), talaltra con rigore schematico da parte dei neoconcreti del M.A.C.; praticate con l'impulso d'una maturit subitamente acquisita (quale si ravvisa nella vicenda materica di Burri) o sulla scorta dell'aspirazione ad oltrepassare i limiti del quadro, propugnata da Fontana e dagli Spazialisti.
E' in un simile contesto - conosciuto direttamente attraverso le frequentazioni degli ambienti torinesi e milanesi (legate anche agli studi d'architettura), del melting pot cosmopolita d'Albisola - che Pier Giulio Bonifacio s'accosta alla pratica della pittura.
Il suo approccio si delinea inusuale. Senza toccare gli estremi di un Barnett Newman, per il quale la crisi morale connessa al secondo conflitto mondiale avrebbe costretto il pittore a ripartire da zero, dal graffito, "come se la pittura non fosse soltanto morta ma addirittura mai esistita", Bonifacio lascia decantare, nel lavoro, le impressioni ricevute sino a far emergere quel tratto specifico che, pur attraverso caratterizzazioni di tempo in tempo differenti, ne contraddistingue l'opera.
Un tratto, se si vuole, elementare, che vediamo dispiegato già ne Il porto di Savona, un disegno del 1953 dove s'affaccia una tensione lineare, energetica più che descrittiva (analoga in certo qual modo a quella che si ravvisa negli schizzi di Constant per New Babylon), pronta ad abbandonare il pretesto rappresentativo per definirsi come struttura.
Benché il riferimento ad una spazialità esistenzialmente esperita torni di quando in quando ad affiorare (nelle più tarde sequenze degli "interni" e delle "finestre"), il senso di questa evoluzione risulta confermato dai lavori realizzati fra il 1955 ed il 1963, in cui l'accentuarsi della formalizzazione geometrica non mira al raggiungimento d'un equilibrio compositivo mediante la distribuzione di figure e di masse cromatiche nel piano ma vuol contribuire piuttosto ad instaurare una più nitida articolazione costruttiva, capace di assumere all'interno d'uno schema unitario un dato di complessità..
E' per agevole avvertire come i risvolti riflessivi e, si potrebbe dire, progettuali che rendono la pittura, per Bonifacio, "strumento di pensiero" non siano la risultante d'un algido calcolare valori e interazioni di forma.
Dietro la severità dell'immagine rilevata da Angelo Savelli sta infatti una sensibilità acuta per la componente germinale del segno, per la sua flessibilità simulatoria e persino per la complicazione barocca che - se talora esplode in varianti "eretiche", identificabili nei lavori "dall'andamento decisamente organico" (Meneguzzo) del '78/'79 o nella fase di marcato gestualismo attorno alla metà degli anni '80 - rimane comunque leggibile anche nelle opere di pi rigoroso impianto razionale. L'ordine viene quindi a porsi, nella ricerca di Bonifacio, non come deduzione da un a priori formale bensì in termini di processo, accidentato e interminabile; è avvicinamento ostico ("ogni ordine è una tortura - scrive Canetti ne La provincia dell'uomo - "ma l'ordine che stabiliamo noi stessi lo è più di tutto"), mai esaurito, piuttosto che perfezione raggiunta.
Di una tale disposizione testimoniano l'asimmetria ed il persistente rigetto dell'ortogonalità (rintracciabile persino nei pezzi d'intonazione minimalista - grandi sagome monocrome, modellate geometricamente in obliquo - prodotti fra il 1980 ed il 1981); l'impiego, anche nei più controllati lavori ultimi, dove si radicalizza la riduzione della gamma cromatica, ristretta al grigio ed al nero, al bianco ed al rosso, di stesure qua e là rarefatte, da cui traspare, secondo una casualità attentamente governata, la vibrazione del fondo. Od, anche, l'irregolarità impercettibile, l'accennata smarginatura di taluni elementi lineari, definiti ricoprendo lo spazio circostante, con un mettere per levare che - in certo modo - consente all'artista di "costruire il vuoto in pittura" (Conti), d'isolare, nell'insieme dei possibili, il segno apportatore di significato.
Se dunque - al di là di una ricostruzione propriamente linguistica - il percorso di Bonifacio si svolge nel tentativo di superare il dualismo che Musil identifica nel vedere "ora con gli occhi della ragione, ora con quegli altri occhi...", l'approdo non può consistere in una mera adesione alla sintassi oggettiva ed autosufficiente del concretismo, di cui pure subisce il fascino. La fessura, il cuneo, la linea spezzata (quella sorta di ronciglio che tanto sovente si scopre nei suoi quadri) assurgono ad un valore d'emblema, riverberano nella loro presenza geometrica elementare la figura ideale del tramite minuto di giunzione fra anima ed esattezza, fra universale e singolare.
s.r. (1994)