Philip Corner, "Unimedia"
INTERVISTA A CATERINA GUALCO
S.R.- Dopo venticinque anni lasci la
sede "storica" dell'Unimedia per trasferirti in uno spazio attiguo
alla tua abitazione. Dalla città medievale passi ad uno scenario
cinquecentesco, con la grande cupola dell'Alessi che s'incornicia nelle
finestre. Cambi quartiere, cambi il nome della galleria, perché?
C.G.- Penso che le ragioni del
cambiamento siano da ricercare innanzi tutto nel cambiamento stesso. Come ho
cercato di spiegare in una lettera che invierò a coloro che hanno frequentato
l'Unimedia, quando la volontà si muove in questo senso, la situazione in atto
non è più soddisfacente, in qualche modo è consumata.
S.R.- Non credo che, nel dire questo,
tu faccia riferimento all'esperienza
personale, nella quale non sembra vi sia stato un calo di tensione. E' un
discorso, il tuo, di tipo "epocale" o vuoi accennare ad un
deterioramento del contesto operativo?
C.G.- In cose di questo genere le
sensazioni personali e le ragioni di fondo, epocali se vuoi, finiscono per
rispecchiarsi le une nelle altre e, alla fine, non è facile distinguere da
quale fonte sia venuto l'impulso. Direi - in termini generali, che mi toccano
solo in parte, visto che ho seguito sempre tendenze non propriamente di moda,
come la body art agli inizi, la scrittura visuale, Fluxus, l'arte antropologica
- che è stato il successo dell'arte negli anni '80, più che la crisi del
periodo più recente, a mettere a nudo gli squilibri d'un sistema nel quale gli
aspetti economici erano arrivati a prevalere sulla dimensione creativa.
S.R.- Ho sentito recentemente Bonito
Oliva dire una cosa analoga, ma in termini più penalizzanti per le gallerie,
cui imputa una crisi di idee che avrebbe paralizzato sia il mercato che la
ricerca.
C.G.- Forse non spetta a lui scagliare
la prima pietra ma qualcosa di vero c'è. Nel senso che le gallerie, per un
complesso di ragioni non certamente ignobili, si sono gravate di un apparato
macchinoso, di spazi imponenti, di un ruolo quasi istituzionale, di cui io
stessa - pur non avendo mai perseguito scelte di questa natura, anzi semmai
contrastandole - ad un certo punto ho avvertito il condizionamento.
S.R.- Quindi il tuo slogan sarebbe:
"meno apparato e più idee".
C.G.- Sì, quello che avverto è il
bisogno di viaggiare più leggera, di creare un luogo diverso, meno formale e,
per usare un termine abusato, più interattivo, più vicino alla vita, dove sia
possibile cogliere stimoli anche minimali: un'immagine, una conversazione, un
intervento musicale, la presenza dell'artista come persona e non come ruolo. Per questo ho pensato, accanto alle mostre,
che continuerò a fare, di dedicare una sera alla settimana, il giovedì, sino a
tardi, alla scoperta di qualcosa da
vedere, da ascoltare, da provocare. O di qualcuno da incontrare, con cui
discutere.
S.R.- Hai già, non dico un programma,
ma delle ipotesi già definite a questo riguardo?
C.G.- No, anche perché vorrei che fosse
veramente uno spazio di libertà, dove mettere in atto proposte non solo mie, ma
di chiunque abbia suggestioni da comunicare. L'idea che ho sempre avuto
dell'arte é proprio questa: che si tratti del solo ambito dove la libertà è
veramente possibile. E per quel poco (o quel minimo) che mi è possibile, voglio
tentare di mantenerla viva.
S.R.- Quindi la volontà di cambiamento
non intacca la coerenza con la vicenda dell'Unimedia.
C.G.- Che io voglia cambiare il modo di pormi nel
circuito dell'arte non implica nessuna abiura. D'altronde lo stesso nome della
galleria alludeva ad una situazione pluralistica, alla coesistenza creativa di
mezzi espressivi diversi, che in venticinque anni è stata, credo, ampiamente
esplorata. La personale di Ugo Carrega, con cui aprirò il nuovo spazio, e
quelle che seguiranno, di Ben Patterson, di Giovanni Rizzoli, indicano il
perdurare dell'impegno in questa direzione. Ma se le faccio non è per
confermare una sorta di tradizione; è per gli stimoli che credo possano
proporre.
S.R.- Non si tratta però certo di
personaggi nuovi, neppure Rizzoli che è ancora un artista giovane. Se ne può
dedurre una valutazione negativa della condizione attuale dell'arte?
C.G.- Forse stiamo vivendo di rendita,
alla fine di un secolo veramente straordinario. Ma se ci si guarda intorno le
cose davvero interessanti sono poche. Gli spostamenti sono minimi e la
situazione dei giovani sembra allarmante. Si potrebbe quasi dire che, per
quanto negativa, la soppressione di "Aperto", alla Biennale, abbia
finito col rivestire un carattere simbolico.
S.R.- Eppure, negli anni '80, si erano
affacciati sulla scena un gran numero di nuovi artisti.
C.G.- E' vero, ma sono quasi tutti
finiti in una specie di limbo... D'altra parte, proprio riordinando i materiali
trasferiti da Vico dei Garibaldi, riflettevo sull'incomparabilità, a livello di
tendenze, di sperimentazione di nuovi media, fra gli anni '60/'70 ed il
decennio scorso che, visto in prospettiva, si rivela, nonostante le parvenze
accattivanti, abbastanza povero.
S.R.- In questo panorama non troppo
rassicurante, quante possibilità dai ancora all'arte?
C.G.- Al di là delle incrostazioni
opportunistiche, della propensione ad una separatezza sacrale o addirittura
feticistica (per questo amo lo humour spiazzante di Fluxus), dell'appiattimento
portato dagli standards di massa, il fondamento dell'arte, che probabilmente
consiste soltanto - e per tutti: artisti e pubblico, mercanti e critici - in
una forma insondabile di passione, non mi sembra sia realmente revocato in
dubbio. Il problema, semmai, è recuperare nel villaggio globale, o nella sua
caricatura d'oggi, la libertà della comunicazione, distinguendola da una
facilità che, in luogo di dar corpo alle differenze, sembra consolidare
pericolosamente gli stereotipi.
(settembre 1995 – intervista raccolta da Sandro Ricaldone)