Ugo Carrega, Ritratto di Caterina Gualco, 2000
Vorrei un continuum. Un continuum come un mormorio
senza fine, simile alla vita,che è ciò che ci tiene funzionanti, la più
rilevante di tutte le qualità.
Henri
Michaux
Qualunque cosa
sia stato - nel tempo - il ritratto: un
monumento duraturo e relativamente maneggevole, una “istantanea sub specie
aeternitatis” o più semplicemente “una puntata giocata contro il tempo”, un
deposito di memoria, ora non lo è più.
Al di là del sopravvenire di nuovi strumenti, sempre più user-friendly, sempre più a basso costo,
in grado di sopperire a talune delle esigenze che avevano contribuito in
precedenza a diffondere il genere, ciò che sembra essere venuta meno è la
dialettica fra anima e corpo, fra visibile
e invisibile, che Simmel scopriva operante in Rembrandt, nella cui opera
“la spiritualità (viene portata) ad un completo dominio, come funzione unificante della figura”.
E’ Gertrude
Stein (da cui proviene, adattato alle esigenze del caso, il titolo di questo
scritto), autrice lei stessa di “ritratti” in prosa, a rilevare in Picasso questo spostamento: “Per lui la realtà
della vita sta nella testa, nella faccia e nel corpo. Questo è per lui così
importante, così persistente, così completo che non è necessario pensare ad
altre cose: e l’anima è un’altra cosa”.
Certo non
tutti hanno seguito questo cammino (non Artaud, né Giacometti) ma nell’insieme
il fenomeno appare evidente: anche la vicenda più settoriale dell’autoritratto,
recentemente ripercorsa da Alberto Boatto, approda ad esiti analoghi.
“Negli
ammirevoli autoritratti che ci hanno lasciato, un Van Gogh o un Munch, un
Gauguin o un Ensor - scrive Boatto - non rincorrono l’immagine riconoscibile di
sé stessi, ma si sforzano di fissare un’aspirazione, un confuso progetto,
un’esperienza esistenziale, di dare figura insomma al proprio destino”. Oggi,
invece, “l’identità di ognuno … è sfuggita a qualsiasi forma di volontà e di
progetto individuale, e ci viene imposta dall’esterno”.
Questa conclusione addita la cultura di
massa come responsabile di un processo di appiattimento la cui meta è la
rappresentazione, banale o grottesca, dell’apparenza. Resta a vedere se debba
prevalere questa scoraggiante ipotesi esplicativa od il pronostico della Stein:
“Il Novecento” (che, per inciso, abitiamo ancora) “dunque è questo: è un’epoca
in cui tutto si spacca, in cui tutto si distrugge, tutto si isola dal resto. E’
molto più splendido di un periodo in cui tutto è conseguente. I prodigi della
natura sono più splendidi dei normali eventi naturali: dunque il Novecento è
splendido”.
E davvero,
a lungo, la distruzione è stata incommensurabile. I cubisti hanno distrutto la
visione classica, i futuristi l’immobilità, Dada tutto quanto, la Metafisica il
soggetto, l’astrattismo la figura, i surrealisti la coscienza, i lettristi la
parola e il cinema, il dripping la pittura, Happening & Fluxus la scissione
tra arte e vita, i situazionisti l’arte in quanto tale.
Ci si
potrebbe tener paghi di questo e vedere cosa succede. Se di nuovo succede
qualcosa.
E sì,
qualcosa succede. In generale, ovviamente, e per il ritratto. Succede che le
stesse tecnologie che sembravano aver annichilito il genere, le stesse varianti
che avevano puntato su obiettivi diversi, ne suscitano la ripresa. Duchamp
interpreta il ruolo di Rrose Selavy in un’istantanea 10 per 15. Isou costella
di caratteri colorati un busto femminile che lo scatto incornicia di sbieco.
Jorn lascia affiorare nel colore la barba arruffata di Bachelard. Meret Oppenheim realizza il suo tatuaggio
fotografico. Warhol alterna la moltiplicazione indifferente dei volti al loro
ingrandimento in confezione glamour. Paolini ci fa scrutare dagli occhi di un
“Giovane che guarda Lorenzo Lotto”, riprodotto tecnicamente da un quadro di quest’ultimo; Pistoletto ci dà in
serigrafia un “Ritratto d’un gentiluomo del XX secolo”. Gerhard Richter sfida,
con le risorse della pittura, le atmosfere flou della fotografia, producendo un
“effetto annebbiato in cui si tratta di mostrare qualcosa e, al tempo stesso,
di non mostrarla, per mostrare – forse – una terza cosa”. Villeglé strappa dal manifesto di un film di Edward
Quinn, un’immagine di Picasso che evoca Malraux: “Il n’y a pas de plus beaux
visages que les visages qui portent des blessures!”. Duane Hanson
riproduce in cera, più vero del vero, in grandezza naturale, un turista in
camicia a scacchi. Ben scrive, bianco su nero: “non so chi sono…”. Claudio
Costa modella la sua testa come termine di raffronto dell’evoluzione
antropologica. Thomas Ruff sigilla nelle sue stampe fotografiche dilatate volti
la cui inespressività rasenta lo stato di trance. Cindy Sherman smaschera la
messa in scena con la scrupolosità di una mimesi stonata. Jenny Holzer chiede
di essere protetta da sé stessa. E
Andrés Serrano condensa nella morgue la definitività dell’inquadratura.
Il problema
è se questo lavoro sia unicamente il frutto di strategie laterali, di forme di
resistenza da beautyful losers o se
invece, nel suo complesso, si mantenga commisurato ad una dimensione epocale.
In qualche modo quest’ultima eventualità sembra realizzarsi, sia pure secondo
un’articolazione inedita. La molteplicità dei mezzi, la frammentarietà
dell’opera, non la grazia attica né l’unità, sono nello spirito del tempo.
Nella definizione dell’identità l’aspetto relazionale ha soppiantato lo schema
costruttivo d’antan, il nucleo si è
trasformato in rete, in membrana che si modella sul vissuto. Un ritratto non è
più sintesi e durata, non fa più storia a sé, non è più formulato
tipologicamente; assume i connotati della sfaccettatura, del racconto, della
prefigurazione. Così, non può che distendersi in un’ottica plurale, divenire
ritratto di ritratti. Diventa un continuum
nel quale ogni episodio si connette ai precedenti e li trasforma. Non si pone
più (o solo incidentalmente) il problema della somiglianza ottica. Cerca
piuttosto “le accidentalità, i frazionamenti, le imperfezioni della vita
empirica”, “tutte le percezioni parziali e le differenziazioni, le separazioni
e le ricomposizioni con cui l’uomo si presenta all’uomo” (Simmel).
Così nel
gruppo di ritratti di Caterina Gualco realizzati da artisti che hanno preso
parte alle manifestazioni allestite nella sua galleria, gli accrochages di oggetti d’elezione e di
rimandi biografici si mescolano alle proiezioni empatiche degli autori e le
scomposizioni minimali della figura (per cui, se non Dio, come diceva Flaubert,
seguito da Aby Warburg, almeno il soggetto è - e viene scoperto - nel
dettaglio) s’accostano od a opere che l’inglobano, per così dire, fisicamente,
nella materia pittorica.
Fra queste
ultime figurano “Dipinto con i capelli di C.G.” (1998) di Federico Piccari, una
tela fantasmatica, in cui s’alternano addensamenti bianchi e bruni, e “Per me e
Caterina” (1993) di Giovanni Rizzoli, due cerchi disegnati con una goccia di
sangue caduta da un taglio accidentale.
Ancora
Rizzoli produce (sempre nel 1993) una piccola installazione in cui il
personaggio viene evocato attraverso attraverso i suoi “oggetti tutelari”, le
posate d’argento d’argento di famiglia, disposte in modo da ripetere gli
schizzi infantili del corpo, sormontate da un grande vaso di cristallo. Andrea
Crosa accumula nel suo “Ritratto di Caterina per assenza” (2000), con il tratto
vivace di humour che lo contraddistingue, i dati della quotidianità, tra
panorami (la cupola della basilica di Carignano) ed affettività (le nipoti),
tra gli strumenti di lavoro (il cordless) e gli hobbies (le piante). Fernando
Andolcetti impernia la sua interpretazione di C.G. sulla sua passione per le
scarpe, realizzando uno dei suoi collages anfibologici, in cui il volto si
profila nel fianco di un’affusolata calzatura. Ben Patterson prende spunto
dall’astrologia per dare vita al suo “Secondo l’oroscopo cinese” (1997) in cui
il soggetto è identificato con il proprio segno astrale (nel caso, il bufalo).
Quest’ultimo
ritratto immette in un ambito particolare, costituito da opere incluse in cicli
e/o in operazioni d’artista. Ne fa parte, fra gli altri, la “tessera di
immatricolazione” redatta, in veste di direttore amministrativo, da Li Chi Choi
il 2 luglio 1992, per gli studi di “Siamo meravigliosi”, presentati in quello
stesso mese all’Unimedia. E il “tratto fotografico (fra i cento e più
possibili) del volto di Caterina, gallerista, a intuire casualmente il suo
essere fra i milioni e più di aspetti possibili” (1999) elaborato al computer
da Ugo Carrega nel quadro di un lavoro (che comprendeva anche immagini
dell’artista, di un critico e di due collezionisti) inteso a riprodurre il
processo completo del “fare arte”.
Dall'immagine
digitalizzata muove anche Sergio Muratore, che scompone il viso di C.G.,
ripresa nei mesi scorsi fra le sue piante, in tasselli plastificati,
instaurando una tensione dissimulata fra unitarietà e molteplicità, mentre
Luigi Viola in una tavola del 1983 si concentra su un particolare fotografico,
sottolineandone l'ambiguità con un marcato intervento pittorico nel campo
circostante. Ancora sulla decostruzione della figura opera Philip Corner nel "Ritratto frammento dal mondo di
Caterina" (1997), fermando su diapositive scorci - estrapolati dal
contesto - d'una ciocca di capelli, un dito, una caviglia.
La matrice
fotografica accomuna i ritratti di Sandro Ristori, che in "Caterina a 16
anni" (1993) vela e - insieme - sigilla l'inquadratura prelevata da una
prova d'epoca sovrapponendole strati di vernice trasparente, e di John Taylor
(un'istantanea realizzata nel 1983 sul terrazzino dell'Unimedia); la sequenza
firmata da Fabrizio Garghetti (1986), nella quale C.G. è colta sotto un Emmett
Williams, e lo scatto di Fulvio Magurno, ove è raffigurata anche Takako Saito.
Altra
dimensione è quella in cui l'artista opera una sorta di proiezione sul
soggetto. Talvolta attraverso la propria cifra stilistica (è il caso di Aurelio
Caminati, che crea attorno al ritratto una magistrale, e sovrabbondante,
scenografia preistorica; di Antonio Flamminio e di Cosimo Cimino, che
giustappongono l'uno la pittura, l'altro la fotografia alla rielaborazione dei
cascami del consumo). Talaltra, invece, assumendolo all'interno di una rêverie personale. Così Mauro Manfredi
ha inserito in una cornice fantastica
l'immagine di una distesa di girasoli, le cui corolle recano incastonati una
miriade di volti di C.G., presentandola, con l'ausilio di alcune righe tratte
da una lettera a Theo, come un ritrovato collage di Van Gogh. E Anna Oberto ipotizza, in
un'opera-libro-poesia, un'affinità con
Adele H., già posta al centro di sue performances.
Poetico,
sul versante del ready-made aiutato, anche l'omaggio di Berty Skuber
("Poesia trovata e parole ricomposte", 1997): un' "Estasi di
Caterina" che traduce, attraverso cancellazioni selettive, l'originaria
descrittività agiografica in un rarefatta laude al talento. Mentre Vittoria
Gualco in “L’una” (1987), apre verso una atmosfera di sogno.
Fra le
trame che s’intrecciano in questa raccolta, una in particolare è venuta sinora
in lice solo per via indiretta, sebbene sia – in realtà – la più evidente e la
più radicata: quella che ripete il disegno, creato in trenta anni di attività,
della galleria. A fissarne i punti cardinali sono i lavori di Claudio Costa (“A
Catthy champagnosa”, 1986, una coppa di vetro sormontata da un’ananas
indorato), sul versante dell’arte antropologica; di Roland Sabatier (“Ritratto
lettrista di C.G.”, 1990), per il cotè della scrittura, toccato per la
prima volta con la storica “La visione fluttuante”, curata nel 1976 da Edoardo
Sanguineti, e seguito poi con mostre di Isou, Piccini, Martino Oberto, Vincenzo
Ferrari, Carrega; di Roberto Agus, autore di un ritratto metamorfico che
raffigura un’inquietante C.G.-libellula, lungo la direttrice della attenzione
verso i giovani artisti (dai genovesi Colombara, Merello, Porcelli a Roberto
Orlandi, Emilio Fantin, Roberto Manetti); di Ben Vautier (“Catherine donne à
boire a Fluxus”, 1997), immaginario brindisi, evocatore di quella “festa
mobile” che, specie negli ultimi anni, ha occupato il suo spazio con rassegne e
performances di Al Hansen, Dick Higgins, Alison Knowles, Eric Andersen, Geoff
Hendricks, Larry Miller, e non accenna a finire.
s.r. (luglio
2000).