ELENA CAVALLO: COSTELLAZIONI IN FERRO
Se il libro, non più volumen attorto su sé stesso, continua tuttavia a suggerire un'idea di compiutezza, d'organico insieme, la pagina (e pagine sono, queste, di Elena Cavallo, anche in senso letterale, nell'uso che del termine - per lastra marmorea o di metallo - fanno Giovenale e Palladio) al contrario evoca tratti di mobilità e d'accrescimento seriale, si sottrae al ridondare dell'argomentazione per accogliere al suo interno ciò che essa nel contempo è: il frammento. Costruiti appunto per frammenti o, se si vuole, data la costanza dimensionale, per moduli, i lavori incentrati sulla disseminazione - ordinata o meno - delle "pagine" nel piano più vasto della parete, potrebbero arieggiare, grazie ai fori molteplici che li attraversano, alla coloritura delle superfici sabbiate d'un blu o d'un grigio intensi, un tentativo di riprodurre una sorta di costellazione, di "elevare - secondo un'espressione di Valery - la pagina alla potenza del cielo stellato". Altra è la valenza di queste opere, a mezza via tra scultura ed installazione, alla cui base sta l'intento di realizzare sequenze concettualmente illimitate di frasi ritmiche, istituite tramite perforazioni di varia (seppur sempre minima) calibratura. La flessione praticata nei riquadri in lamiera, la piega che percorre le pagine, come già scompartiva i ferri verticali della stagione precedente, non rimanda ad un vissuto (il "vivere nelle pieghe" di Michaux) nè restituisce per analogia una realtà scissa; assume invece, introducendo uno specifico elemento plastico, uno schema di tensione su cui s'impernia un gioco luministico essenziale, traccia un andamento lineare lungo il quale si dispongono le forature, vere e proprie notazioni musicali che virtualmente animano il silenzio dell'opera. "Il mio ferro deve risuonare", chiosa l'artista, stabilendo un approdo in apparenza incoerente. Un paradosso capovolto, rispetto a quello cui siamo pi accostumati, del cogito langagier che aspira a farsi tacito, del dire raziocinante che si propone di "coincidere in silenzio". Ma già limpidamente prefigurato da Max Picard, nel suo intendere - in nuce - la musicalità come "un silenzio che, sognando, prende a suonare".
s.r. (1993)
ELENA CAVALLO
Se la piega infinita, che simula tutte le materie, è - secondo Deleuze - l'invenzione del Barocco, là dove non si tratta di realizzare una contestura spinta "sino all'indiscernibile", che ripeta, nei suoi snodi, la complessità dell'esistente, ma di dar luogo ad una formatività primaria, in certo senso grammaticale, la flessione o l'incavatura del supporto non può che recuperare una dimensione d'essenzialità euclidea, assumendo una cadenza rettilinea.
Si smarrisce, in questo gesto plastico elementare, compiuto dall'artista con l'ausilio di strumenti meccanici, la natura specifica, fattuale, della piegatura, che non è più voluta, panneggio, grinza, ma scansione minimale dello spazio; che - senza scompartirlo radicalmente (senza perciò delimitarvi un dentro ed un fuori) - segna di una tensione destinata a moltiplicarsi negli elementi accostati di una scultura composita, plurale, al punto di oltrepassare i confini dell'installazione.
Altrettanto lineare l'itinerario per il cui tramite è venuto attuandosi questo processo di concentrazione, basato su "una fondamentale esigenza d'ordine, inteso come messa a registro delle infinite possibilità dell'apparenza" (Cirone).
Dalle serie pittoriche degli anni '80 dove, seguendo richiami scrittorii e musicali, si componevano sequenze luminose ritmicamente intervallate, si passa - alle soglie del decennio in corso - ad una fase in cui al cromatismo variegato dei primi lavori viene sostituito quello, rattenuto e, in senso proprio, monotono, intrinseco ai materiali utilizzati.
In un grande lavoro del 1990 ("Legno alluminio", 190 x 28 x 4), una banda metallica via via dilatata, secondo un processo di accumulo temporale, solca verticalmente il pannello nero sul quale è disposta, a sua volta perforata o scalfita da tracce lineari.
L'autonomia, già chiaramente enunciata, di queste bande - ove peraltro l'elemento plastico era appena accennato, senza del tutto travalicare la matrice grafica del segno - si completa nelle sculture ("Ferroarmonico") realizzate nel 1991 con lamine rettangolari allungate a disegnare una linea nello spazio, in cui la piegatura, più o meno accentuata, assume una duplice finalità: strutturale per un verso, in funzione dell'equilibrio statico dell'opera; volta, sotto altro profilo, ad attivare un gioco luministico che si distende nella grana minuta del rivestimento pittorico nero.
La valenza musicale si mantiene negli agglomerati di stele metalliche, mutevoli intrecci di variazioni disseminate in situ, per "far suonare il luogo" (che può essere, indifferentemente, il parco di Villa Serra a Comago od il Cortile di Palazzo Ducale a Genova), come nelle costellazioni di "Pagine" (1993/93), disposte a parete, ove ogni singolo riquadro, piegato diagonalmente, è attraversato da sequenze puntiformi che evocano le trasposizioni sonore esemplificate da Kandinsky in "Punto, linea, superficie".
Nella ricerche da ultimo intraprese, la piega si muta in fenditura, in un taglio che consente all'autrice di condurre - sempre con un intervento minimale - un pi articolato gioco volumetrico, portandola a staccarsi progressivamente da quell'ambito che Michel Seuphor definiva, in contrapposizione alla sculpture tactile, sculpture visuelle, basata sulla leggerezza degl'impianti bidimensionali, per assumere al proprio interno quella componente spaziale in precedenza perseguita con l'iterazione e la dislocazione nell'ambiente, sempre ribadendo tuttavia (al di là dell'adozione di rivestimenti cromatici più vivi) l'opzione per l' "economia dei mezzi e la precisione delle forme", dando vita ad un tipo di struttura libera che, ancora nelle parole di Seuphor, "nella sua misura riassume un mondo di virtualità latenti".
s.r. (1994)