MARIO CHIANESE E IL PAESAGGIO
All'imperativo cezanniano che proclama la necessità di rendere la verità in pittura, Chianese oppone un elogio discreto dell'apparenza sensibile, di un tempo effimero, appuntato - nelle sue componenti stagionali, atmosferiche, di luminosità - giorno per giorno (notando,ad esempio, in una sequenza di tre dipinti esposti da Rubinacci, il progressivo disseccarsi delle chiazze d'umido lasciate dal disgelo su una scarpata) od istante per istante, in un mutare appena avvertibile dei toni.
Il tema ostensivamente enunciato, il paesaggio, viene trattato secondo un'ottica non tanto costruttiva quanto di "modulazione coloristica", strettamente irrelata alla determinazione temporale: e forse l'intero percorso di Chianese, giunto alla soglia del quarantennio di pratica, puo' esser letto in questa chiave, come un itinerario diagonale che da una condizione di fissita' (inerente all'articolazione tardo-ottocentesca, in questa prima fase, del quadro) muove attraverso un procedimento di astrazione focalizzato su componenti meramente armoniche verso un'espunzione del contingente, una sospensione del flusso degli eventi, per disporsi infine ad una considerazione dello scenario naturale nel suo mobile atteggiarsi momentaneo.
Pittura di adesione più che d'impressione, quella di Chianese, esercitata secondo il modo del pensiero, partecipe dell'emozione, che Ignacio Matte Blanco definisce "indivisibile", condotta non in terre incognite (ovvero negli ambiti più propriamente sperimentali di cui ha tuttavia sentito il fascino, come attestano fra l'altro certi inserimenti oggettuali in lavori realizzati al termine dello scorso decennio) ma nell'alveo di una tradizione recepita altrimenti che in guisa di deposito iconografico o di maniere esecutive, per un'affinità profonda di sentire con taluni fra i protagonisti della cultura figurativa ligure di fine secolo.
Le mostre in corso presso il Centro d'Arte La Maddalena (acqueforti) e la galleria Rubinacci (dipinti), nel fare il punto sull'attività degli ultimi anni, pongono altresì in luce l'intima coerenza dell'opera di questo artista, cui risultano tuttora pertinenti le osservazioni formulate, in margine alla personale svoltasi nel 1961 alla galleria San Matteo, da Germano Beringheli che, nei lavori ivi esposti, individuava "una trascrizione del vero visibile secondo un'assorta intuizione di colore-luce ove l'immagine resta fermata in un'armonica essenzialità, quella del sentimento del reale espresso oltre le convenzioni e le abitudini del reale, variata da sensazione ed intuizione in un naturalismo filtrato interiormente".
s.r. (1988)
ANTOLOGICA DI CHIANESE A VILLA CROCE
Nel secolo delle avanguardie, dopo l'avventura di Mondrian che dalla forma-albero deduce una semplificata trama ortogonale, dopo l'ironico epitaffio di Picabia che mima infantilmente un panorama con piume e stecchini, coltivare la pittura di paesaggio può apparire impresa fuori tempo, consegnata senza rimedio alla ripresa di modelli ottocenteschi. Lo spazio non contaminato da facili epigonismi e da prese di partito antimoderne che nella prima metà del secolo era presidiato dalle forti presenze di Morandi e Carrà, di Bonnard e di Nolde, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale viene ad essere progressivamente sguarnito. Gli artisti più sensibili al tema naturalistico trovano nell'informale un linguaggio che permette loro di sviluppare su basi più radicali talune istanze già presenti negli impressionisti e nei Fauves. Ed il privilegio accordato al "brivido della vita" a scapito delle "strutture della mente" concorre a sopprimere il disegno del paesaggio assorbendolo nel gioco delle masse e delle intensità cromatiche.
In un simile contesto si può comprendere come, nel presentare l'antologica di Mario Chianese a Villa Croce, Guido Giubbini ne abbia caratterizzato la figura come quella di un isolato, che assume significato "non per quanto ha di moderno ma per quanto ha di antico", ribelle alla prevaricazione esercitata dalle tendenze non figurative e custode "di un prezioso patrimonio di conoscenze tecniche".
Ma l'insieme delle opere esposte, in sequenze ordinate cronologicamente, nelle sale del Museo sembra smentire questa interpretazione, quanto meno nel suo risvolto pi marcatamente "conservatore". La crisi della rappresentazione (dello scenario naturale come della figura umana) e la crisi della stessa pittura di fronte all'affermarsi di nuove tecniche artistiche, sollecita Chianese non già ad un arroccamento nella tradizione ma ad un dialogo con le nuove correnti che dagli anni '60 si protrae sino agli inizi dello scorso decennio.
All'innata sensibilità poetica ed al radicamento in un territorio - quello della collina fra Liguria e basso Piemonte - l'artista unisce la ricerca non di una semplice sigla personale ma di nuovi, ponderati sbocchi all'impasse riscontrata.
Al giro d'orizzonte compiuto negli anni formativi tra gli esempi del Naturalismo ottocentesco, il Postimpressionismo e la lezione morandiana, alle soglie degli anni '60 fa seguito infatti un singolare confronto a distanza con l'astrattismo, mediato dall'incontro con Rocco Borella. Nelle bande orizzontali gialle e verdi di "Campi-luglio" od in quelle verdi e brune di "Campi-agosto" (entrambi del 1965) Chianese sembra piegare le disincarnate campiture di MarkRothko alle esigenze di una rappresentazione del panorama agreste svincolata dal dettaglio realistico.
Questo processo di affrancamento dal verismo si mantiene durante la fase successiva, in cui l'artista si vale di schemi d'ascendenza simbolista e liberty per introdurre nell'immagine paesistica una componente percettiva pura. Gli esiti straordinari - anche per magistero pittorico - delle "Riflessioni di natura" allora compiute (fra le quali s'annoverano "Tronco d'inverno", 1971, e "Viti a Monterosso", dell'anno successivo) trovano una radicale antitesi nelle "Registrazioni di natura" realizzate all'inizio del decennio seguente, dove - forse con riferimento a pratiche di arte povera o di Land Art - il fango del Lemme viene materialmente documentato nell'opera omonima (1980) accanto all'immagine del torrente e la pula raccolta dopo la trebbiatura contrappunta l'immagine assolata dell'aia.
Dopo il recupero della pittura nella sua "fisicità", Chianese riprende ad indagare, in taluni "dittici", la temporalità ("Sera e imbrunire d'estate", 1983) ed elabora imagini multiple, ove l'accostamento del particolare alla veduta d'insieme (rintracciabile ad esempio in "Fornace in disuso a Novi", 1981) introduce un pertinente tratto di complessità.
Nell'ultimo decennio la vitalità del rapporto con le tendenze contemporanee si affievolisce, bilanciato inizialmente da una rinnovata felicità espressiva che pervade i dipinti dedicati nel 1987/88 a Sant'Ilario. Mentre nei lavori recenti l'artista riprende, emulandole, cadenze decisamente ottocentesche, modulate su Rayper e Fontanesi. Con esiti sempre alti, ma più prossimi forse alla dimensione memoriale che non "al senso, eccitantemente vivo, della storia" evocato dal curatore.
s.r. (gennaio 1998)
MARIO CHIANESE: IL TRITTICO DEL SOLE
A tre anni dalla grande antologica di Villa Croce, organica rivisitazione di cinquant'anni di ricerca in pittura, Mario Chianese torna ad esporre a Genova con una personale di spessore storico, incentrata sul lavoro degli anni '70 che rappresenta, nel percorso dell'artista, uno snodo cruciale.
Nei dipinti di quegli anni, idealmente riuniti sotto il titolo complessivo di "Riflessioni di natura", Chianese approda - come osserva Luciano Caprile nel breve testo che introduce la rassegna - ad "un magico equilibrio fra tecnica dell'osservazione e tecnica della trasposizione", segnando uno dei punti alti della vicenda contemporanea del paesaggio.
Sant'Ilario prima e Monterosso poi divengono le sorgenti di impressioni filtrate dal processo compositivo sino a raggiungere una dimensione essenziale. Addirittura sembra che l'artista, nel passaggio dal bozzetto realizzato dal vero al quadro, oltrepassi lo stadio della semplice decantazione del dato visivo per proporsi di "vedere attraverso la pittura", memore della verità profonda contenuta nell'osservazione formulata da Birolli proprio nello scenario impareggiabile delle Cinque Terre: "il segreto di questo paese non è nella sua naturalezza a posteriori ma nell'estensione piena e totale della luce, che scandisce i ritmi e accende qua e là dei punti che paiono ricondurre a un primo significato di genesi".
"Il Trittico del sole è poema, incanto e smarrimento dell'uomo che attende il giorno come se fosse il primo e l'ultimo della terra", annota ancora Caprile. E attorno a quest'opera maggiore - ove la scansione sequenziale, dal buio alla luce, leggibile nella successione dei pannelli, è contraddetta dall'immobilità che li pervade, quasi che ogni immagine voglia raffigurarsi come istante assoluto - altri quadri condensano scorci di spazi e intrecci di elementi naturalistici in declinazioni alternatamente primigenie e fiabesche.
Sul primo versante s'impone "Lo scoglio chiaro verso Punta Mesco" (1975) dove la calibrata successione di campiture via via più chiare accende un bagliore diffuso; sul secondo si registra l'inattesa apparizione d'un arbusto al margine di "Mattino d'inverno a Sant'Ilario" (1967), su una quinta d'azzurro progressivamente accentuato, o lo svanire delle sagome degli alberi, verdi nel verde, di "Ulivi a Monterosso" (1970).
Accanto ai dipinti un folto numero d'acqueforti coeve testimonia l'impegno di Chianese nell'ambito dell'incisione: un impegno che nella sua opera non è secondo alla pittura ma le si pone a fianco in un gioco di reciproci rimandi che trova nell'approfondimento delle rese luministiche il suo aspetto centrale.
Alcune tele realizzate sul finire del decennio ("Fienagione in località Conti", "Lo Scrivia asciutto in un mattino d'estate", entrambe del 1979) preannunciano infine gli esiti più recenti dell'artista, frutto di un'espressività più diretta, che si misura con la tradizione senza peraltro abbandonare la tensione verso inedite vibrazioni cromatiche.
s.r. (novembre 2000)