Hozro: materiali sulle arti visive a Genova







(foto Marisol Costa)






IN MARGINE A UN ARTICOLO SU CLAUDIO COSTA
(Il Sole 24 Ore - 6/2/2000)

È apparso su Il Sole - 24 ore un articolo francamente sgradevole a proposito della retrospettiva di Claudio Costa in corso al Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce. Ne è autrice Manuela Gandini, le cui qualità critiche (nel bene e nel male) non hanno bisogno di commento ma che riesce sovente a stupire per il tratto - che altri non troverebbe positivamente praticabile - insito nei suoi interventi.
Nell'occasione Gandini si astiene dall'analizzare l'opera di Costa per tracciarne (sulla base di quali dati? con quale competenza?) un approssimativo quadro clinico. E identifica, sulla scorta di una affermazione di Enrico Pedrini, che vogliamo pensare malintesa, la fonte dei problemi di Costa in un presunto ostracismo riservatogli dalla città in cui aveva scelto di vivere. "Claudio Costa non deve esistere". Lo avrebbe sancito Germano Celant, come corollario di un più generale interdetto verso la città di Genova. (Qui apriamo una parentesi: l'atteggiamento di Celant verso la città non è tanto di rifiuto quanto di indifferenza, una sorta di obliterazione del punto di origine della propria traiettoria - al modo stesso in cui gli artisti eliminano dai loro curricula le prime personali, tenute in gallerie non di primo piano - operata nell'intento di accreditare una immagine di sé come critico di statura e operatività internazionale sin dall'inizio della carriera).
Di fatto, nonostante la concordante opinione di Giorgio Cortenova, le cose sono andate altrimenti. La mancata inclusione nella pattuglia dell'Arte Povera (dovuta probabilmente anche a fattori contingenti) ha consentito a Costa di sviluppare a fondo le sue ricerche su temi antropologici ed alchemici. E la città non è stata solo matrigna, anche se non gli ha tributato appieno il riconoscimento che meritava. Un gran numero di persone, a Genova, trovava in Claudio Costa un riferimento e una suggestione essenziali, pur se non sempre agevoli. Il fatto che quasi tutte le opere presenti in rassegna provengano da raccolte locali ne dà testimonianza. Il regesto delle mostre personali, per altro verso, evidenzia la disponibilità riservatagli dalla maggior parte delle gallerie cittadine. E, in catalogo, una bibliografia meno frettolosa non avrebbe mancato di evidenziare una attenzione critica di particolare consistenza. Nè infine va dimenticato come, pur in un ambiente descritto in termini tanto sfavorevoli, Costa abbia trovato modo di collaborare, in ambiti e con obiettivi diversi, con un ragguardevole numero di artisti.
Certo dopo la sua scomparsa si sono registrati episodi non chiari, come il passaggio in asta di sue opere bellissime con stime decisamente ignobili. Ma di questo non si può far responsabili i genovesi nel loro insieme. E certo la produzione inarrestabile dell'artista, insieme alla corrività di qualche operatore, può aver influito nel deprimere le quotazioni.
Alle distorsioni del quadro d'insieme Gandini aggiunge una nota particolarmente greve scrivendo che Costa è stato per anni "stipendiato" da Pedrini. Se davvero quest'ultimo lo ha sovvenuto dal punto di vista economico vogliamo pensare lo abbia fatto per ragioni più nobili rispetto a quelle tipiche di un rapporto di lavoro dipendente. Senza contare che comunque l'artista aveva numerosi sbocchi nel circuito mercantile.
Del tutto fantasiosa risulta, in ultimo, la ricostruzione dell'insediamento di Costa nel Presidio di Salute mentale (ex. O.P.) di Quarto. Secondo la versione diffusa da Gandini il tramite sarebbe stato ancora Enrico Pedrini. Senza voler negare che questi abbia potuto effettuare - magari in un secondo tempo - qualche intervento del quale peraltro non siamo a conoscenza, consta che il primo spazio nel complesso di Via Giovanni Maggio venne ottenuto da Costa insieme ad altri artisti (Luisella Carretta, Piergiorgio Colombara, Carlo Merello, Rodolfo Vitone) che con lui formavano l'Associazione Spazio Paradigma, in quella che era allora la Sede del Centro del Levante, grazie alle sollecitazioni di Attilio Sartori. Di qui l'instaurazione di rapporti con Antonio Slavich, Direttore del Servizio di Salute Mentale, e la collaborazione agli ateliers di Arteterapia, sicuramente decisivi per l'acquisizione di uno studio in loco.
Date le premesse sul piano della ricostruzione, per così dire, storica c'è da rallegrarsi che l'indagine sulle opere si limiti a due formule di maniera. Ne quid nimis.

s.r. (febbraio 2000)



Ci è pervenuta il 3 marzo da Carlo Merello la lettera che di seguito riportiamo, a conferma della nostra ricostruzione.

Gentile Signora Gandini,

e p.c.
Direttore de Il Sole 24 Ore, dott. Ernesto Auci

Le scrivo per informarLa di alcune inesattezze che ho riscontrato nei Suo articolo a proposito della mostra di Claudio Costa al Museo di Villa Croce di Genova.( Il Sole 24 Ore di Domenica 6 Febbraio c.a.) Essenzialmente mi riferisco all'ultima parte dell'articolo dove Lei dice testualmente: "Pedrini lo stipendiò per alcuni anni e, dopo la chiusura dell'Ospedale Psichiatrico di Quarto dove l'artista veniva ricoverato, riesce a fargli avere nello stesso luogo un grande studio. Tra queste mura predestinate Costa crea una "Scuola delle forme inconsapevoli" per malati o ex malati di mente".
Claudio Costa fu ricoverato per pochissimo tempo a Quarto prima degli anni Ottanta, giusto poco dopo Documenta Kassel del '77, (delle motivazioni di questo ricovero può chiedere lumi alla Sig.ra Gualco, curatrice del suo lavoro come gallerista e sua compagna di vita fino alla seconda metà degli anni Ottanta, che dall'ospedale lo tirò fuori). Passato quel momento di crisi Claudio non ebbe più nulla a che fare con la psichiatria se non sul piano culturale e artistico. Io lo conobbi nel 1981, quando iniziai a lavorare con la galleria Unimedia di Caterina Gualco, e conseguentemente a frequentarlo insieme ad altri amici artisti quali Colombara, Caminati, Crosa (per citare solo alcuni genovesi); in quel periodo si facevano molti progetti comuni, ci si vedeva spesso, e le assicuro che non era certamente la persona che appare leggendo la Sua frase "dove l'artista veniva ricoverato" - come se, in quegli anni, ad intervalli più o meno lunghi il povero Claudio venisse ospitato in manicomio!
Nel 1984, con Claudio e molti altri artisti genovesi, si iniziò un dialogo con l'allora Assessore alla Cultura del Comune Prof. Sartori, in merito alla necessità di trovare degli spazi in città per poter ospitare studi di artisti non in grado di pagare affitti e, nel contempo, creare un 1uogo dell'arte pubblico dove poter generare eventi creativi col sostegno dell'amministrazione cittadina. Sartori ci indicò il Centro Culturale del Levante quale referente organizzato che aveva sede negli ambienti dell'ospedale Psichiatrico di Quarto non utilizzati dalla USL di competenza.
Dopo un breve colloquio con l'allora direttore Prof. Antonio Slavich, Claudio ed io, insieme a Piergiorgio Colombara, Luisella Carretta, Rodolfo Vitone e al compianto Arnaldo Esposto organizzammo lo "Spazio Paradigma" occupando un salone dell'Ospedale facente parte del Centro Culturale del Levante. Ci rendemmo subito conto che non era possibile percorrere l'idea di creare studi per il lavoro personale e quindi decidemmo di concretare la seconda parte del progetto dando inizio ad una serie di iniziative documentate dal catalogo che allego alla presente.
Al termine di un anno di lavoro il gruppo, per motivi vari che in questa sede non interessano, si sciolse e Claudio fu l'unico che rimase attivo al Centro del Levante, trasformando il salone che usavamo per le mostre nel suo studio personale; ciò con l'appoggio del Dott. Slavich con il quale, insieme ai suoi collaboratori, intraprese un bellissimo lavoro di arte-terapia per i ricoverati.
In seguito Claudio aumentò il suo spazio vitale all'interno dell'Ospedale occupando zone libere di quell'enorme 'Falansterio' per poterci 'anche' abitare. E sempre in quel periodo (19871 988) Claudio dette vita al "Museo delle forme ìnconsapevoli" (e non "scuola"), per il quale chiese a molti artisti amici di donare un'opera da collocare insieme a quelle di alcuni ospiti dell'Ospedale (per avere lumi su questo periodo della vita e del lavoro di Claudio a Quarto, se vuole, chieda a Miriam Cristaldi, sua ultima compagna, che lo seguì in quegli anni fino alla fine). Così è iniziata la storia di Claudio a Quarto e in tutto questo il Signor Pedrini non c'entra proprio nulla.
Gentile Signora, forse penserà che sia un leguleio e le precisazioni che ho fatto siano elementi minimi che nulla cambiano nel percorso artistico dì Claudio: ciò può essere vero, ma la motivazione profonda che mi ha spinto a scriverLe non sta in questo.
Dal Suo articolo traspare una immagine di Claudio come uomo malato, sempre sul limite della follia o "depressione", come dice Lei (e questa è la mia sensazione); non so se questo fatto sia intenzionale o conseguenza dì una Sua fantasia neoromantica del tipo 'genio e follia' di lombrosiana memoria, ma Le posso assicurare che, almeno da quando l'ho conosciuto e ho potuto collaborare con lui, Claudio fu una persona lucida e consapevole di ciò che poteva e voleva fare e ha fatto (e non è poco). Chi afferma, tra l'altro: "preferisco fare un lavoro intelligente piuttosto che bello", mi creda, non è ne depresso, ne fobico o quant'altro, ma una persona conscia dei propri mezzi e del come utilizzarli.
Smisi di frequentare Claudio in quella seconda metà degli anni Ottanta, avendo comunque notizie sue e del suo lavoro col quale ebbi per diverso tempo una certa sintonia, specialmente per la parte che riguarda il lavoro sul tema dell'Alchimia.
Lo ritrovai, ahimé, proprio pochi mesi prima della sua dipartita, e lo ritrovai nel modo migliore nel senso che progettammo insieme una bellissima mostra della quale allego il catalogo soltanto per farLe leggere la pagina a lui dedicata e scritta da Luigi Tola: "Con Claudio quella volta fortemente".
Tanto Le dovevo.
Cordialmente,

Carlo Merello

Seguono firme:
Luisella Carretta
Rodolfo Vitone
Piergiorgio Colombara





CLAUDIO COSTA: L'ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE

L'antologica di Claudio Costa con cui il Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce inaugura il programma 2000 è la prima grande mostra dedicata all'artista dopo la morte avvenuta prematuramente nel luglio 1995 e ne ripercorre la ricerca dal 1968 ai primi anni Novanta.
Nato da genitori italiani a Tirana nel 1942, Claudio Costa esordisce nei primi anni Sessanta con dipinti e disegni tra Informale e Pop Art per approdare nel '68, dopo alcuni anni di soggiorno a Parigi, ad una ricerca tra Arte Povera e Concettuale documentata nella personale del novembre-dicembre 1969 alla Galleria La Bertesca di Genova che all'Arte Povera aveva dato i natali nel '67 con la prima mostra a cura di Germano Celant. Da questo importante episodio prende inizio la mostra di Villa Croce che espone alcune delle opere realizzate tra il '68 e il '69 come "Spine", "Vela", "Cuneo" e altre, senza titolo, caratterizzate da un uso simbolico ed evocativo dei materiali naturali (ardesia, legno, metallo, piume).
Il tema centrale della ricerca di Costa - una riflessione sulla vita e sulla morte e quindi sul tempo e sullo spazio come ineliminabili categorie della vicenda umana - è già presente nei lavori Sui materiali del '70/'71 e in particolare nelle "Colle" e nelle "Tele acide", che attribuiscono all'opera d'arte le caratteristiche dì un organismo umano, con un suo destino non modificabile neppure da parte dell'artista. Così la colta di pesce o di coniglio spalmata liquida sulla tela libera o intelaiata subisce in relazione ai cambiamenti atmosferici contrazioni e dilatazioni simili ad un faticoso respiro, laddove la tela (o la carta) trattata con l'acido dell'acquaforte, è soggetta ad un inesorabile processo di erosione.
In parallelo l'artista realizza i primi lavori sul cervello ("Craneo!ogie", "Omaggio alla testa di Leonardo") inteso come un misterioso motore immobile dell'attività umana.
La ricerca sull'uomo e sulle sue radici si trasferisce ben presto dall'individuo alla specie dando vita alla cosiddetta fase antropologica dell'opera di Claudio Costa che si rivolge al passato remoto della preistoria e alla ricostruzione in calco degli utensili e delle sembianze stesse dell'uomo (a partire dalla sua faccia per ricostruire a ritroso Il primate da cui ha origine).
Nei primi anni Settanta questi suoi lavori "antropologici", sono presentati in numerose mostre a Genova e a Milano, ma soprattutto in Germania dove è invitato dal curatore della collezione Ludwig Wolfgang Becker alla mostra "Arte delle tracce" presentata ad Aachen, Amburgo, Monaco.
Questa mostra, e la successiva partecipazione a Project Colonia 74, collocano l'artista a livello internazionale nell'ambito di quell'arte antropologica che dai Poirier a Nikolaus Lang e Nancy Graves rivisita il passato come modo di comprensione della contemporaneità. Nel 1977 Claudio Costa esporrà a Documenta 6 di Kassel la grande installazione "Antropologia riseppellita" da allora mai più esposta e presente nella mostra genovese grazie al prestito gentilmente concesso da Enrico Pedrini.
Nel frattempo, alla ricerca di un contatto tra passato e presente, Costa ha realizzato un ciclo di opre sui Maori della Nuova Zelanda (1973 - 74) e, soprattutto, il Museo di antropologia attiva a Monteghirfo (1975). Questa "operazione", che capovolge il principio duchampiano della decontestualizzazione dell'oggetto per ricondurlo al contesto in cui l'oggetto è stato costruito in una sorta di risemantizzazione globale dell'uomo e della cultura contadina, è dedicato ampio spazio in mostra grazie ai nove pannelli di "Natura Naturata" (di proprietà della famiglia e attualmente Custoditi presso la Fondazione Claudio Costa di Verona) e ad altre significative opere provenienti da collezioni private.
La collaborazione della famiglia, della Fondazione Claudio Costa di Verona presieduta da Giorgio Cortenova, e delle più importanti collezioni private e gallerie genovesi ha permesso una significativa documentazione del percorso dell'artista che prosegue negli anni '80 con la cosiddetta fase alchemica (consacrata ufficialmente con l'invito alla Biennale di Venezia nel 1986) caratterizzata da una figurazione visionaria e surreale e da un ritorno alla pittura e al colore. Subito dopo Costa ritorna a forme essenziali ed intense, latamente antropomorfe, nelle grandi Macchine alchemiche , assemblaggi di oggetti trovati, polli di animali, legno che si rifanno nuovamente ad una simbologia primitiva, formalmente ispirata alle incisione rupestri delle grotte di Lascaux, da lui visitate nell'85, ma decisamente legata ad una visione dell'arte come magia e dell'artista come sciamano che si collega a Beuys e alla nuove tendenze antropologiche dell'arte degli anni '80 di area tedesca e mitteleuropea. Gli anni Novanta, documentati in mostra da un nucleo omogeneo di opere realizzate a Rossiglione nella cascina Barulè, si caratterizzano per una sorta di viaggio a ritroso che l'artista compie su se stesso rivisitando i temi della preistoria e poi quelli della cultura contadina di Monteghirfo nella dimensione effimera e altamente simbolica della ruggine, metamorfosi spontanea della materia e nuova efficace rappresentazione del fluire del tempo.
In questi anni Claudio Costa alterna ad una intensa attività come artista terapeuta presso l'ospedale psichiatrico di Quarto, dove fonda l'istituto per le forme e le materie inconsapevoli, frequenti viaggi in Africa (Malindi, Dakar, Kampala).
Le due esperienze apparentemente lontane, si configurano di fatto anch'esse come un ritorno alla riflessione sul cervello e sull'inconscio da cui era partito negli anni Sessanta e come una nuova ricerca di culture primitive in cui sia ancora possibile ritrovare un rapporto violento, ma fecondo tra l'uomo e la natura.
La morte improvvisa e inaspettata ha purtroppo impedito all'artista di portare a termine nuovi progetti come io Skull-Brain Museum che prevedeva l'istituzione di altrettanti Musei lungo una linea che definisce i contorni dell'Africa settentrionale ed evidenzia l'identità tra quel profilo geografico e la calotta cranica dell'uomo.
La rigorosa selezione della mostra (che espone un centinaio di pezzi) e il catalogo (che si avvale del contributo di studiosi italiani e stranieri) si propongono una prima sistemazione critica dei lavoro di Claudio Costa affidando alla storia e al futuro il suo messaggio fortemente utopico ma proprio per questo più che opportuno nella prospettiva del nuovo millennio.

(dal comunicato stampa)

 



BORDERLINE. UN MODELLO FRA PARENTESI
Intervista a Claudio Costa (29/9/1983)

CLAUDIO COSTA E IL MUSEO DELLE FORME INCONSAPEVOLI
CESARE VIEL: PERFORMANCE-OMAGGIO A CLAUDIO COSTA







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