BEPPE DELLEPIANE: ANTOLOGICA A VILLA CROCE
"Abbiamo dei segni che si atrofizzano all'interno, sfaldando la possibilità di emettere uno spiraglio di sorpresa". A questa atrofia, alla "timidezza o la volontà strozzata" che inducono dipendenza, che impediscono di affrontare la trasformazione, Beppe Dellepiane ha voluto opporre il suo lavoro d'artista, sin dalle tavole del ciclo Le radici della terra, viluppi di materia in germinazione appena trattenuta da una spessa patina bianca, che nel 1962 ne hanno segnato l'effettivo esordio.
Il percorso dell'antologica allestita da Sandra Solimano nelle sale di Villa Croce, pur nella impossibilità di restituire la dimensione fisica delle performances che a lungo hanno rappresentato la modalità espressiva privilegiata di Dellepiane, pone in evidenza l'intento, precisato dall'autore in una dichiarazione pubblicata nel 1981, di "sconcertare e mettere sotto accusa quelli che piombano nella propria autonomia indebolita dall'individualismo".
Nei primi anni '70, attraverso la creazione di apparati simbolici, come la dorata Bici-ambivalente, totem ironicamente consacrato alle virtù d'una tecnologia obsoleta e, più ancora, la Madonna della seggiola, una struttura di vaga sembianza antropomorfica al cui interno è racchiuso un contenitore con falsi lacerti corporali, l'artista si volge polemicamente contro la concezione anestetizzante della tecnica come agente di progresso e la riduzione del sacro ad una dimensione consolatoria, spogliata del mysterium tremendum che ne pervade il più intimo sostrato.
Analogamente i neri assemblaggi d'oggetti, esposti nel 1974 al Festival di Spoleto, nell'insistita esibizione di tratti maschili (gli ombrelli) e femminili (adombrati nelle borse) scandagliano aggressivamente il tema degli stereotipi di genere. Mentre in talune fra le numerose performances allestite in quel periodo all'Unimedia ed al Vicolo, vengono toccati i temi della nascita e della morte: come nello Stilita (1974), ove l'artista estraeva da un marsupio allacciato sul ventre una patata, che divideva e ricostruiva fissandola con spilli da balia per poi nuovamente riporla in grembo.
Questa discesa verso il più profondo nucleo esistenziale sembra registrare una diversione nella sequenza di opere elaborate per la mostra A Guido Gozzano, tenuta nel 1982 a Palazzo Bianco. Ma nelle "nature morte" rivestite di tela coperta da una mano spessa di bianco ed innalzate su precari supporti non si realizza solo una trasposizione oggettuale della finzione pittorica.
Vi si cela, anche, un affondo sottilmente problematico sull'inaridirsi della memoria, che si muta - come nota la Solimano in catalogo - in "simulacro devitalizzato, prigioniero di uno spazio-tempo asfittico". Dietro al cui nitore affiora il carico d'angoscia accumulato nei grandi pannelli neri dell'83/84, attratti verso il basso dal peso di fagotti sospesi a calze di nylon, da mostruose escrescenze a forma di tubo che sembrano volerci risucchiare entro la cornice buia dell'opera.
Ad essi segue un silenzio durato quasi dieci anni, dovuto anche a drammatiche vicissitudini personali. La ripresa, nel '93, ha luogo con disegni elaborati ancora con materiali e procedimenti inconsueti (lucido da scarpe, asportato e graffiato con spazzole metalliche), dove "la frenetica ipermotilità della performance" sembra "concentrata nel solo gesto della mano". E dove l'artista, come ancora osserva la curatrice, costringe "nella dimensione del foglio il repertorio stravolto di un'umanità afflitta e martoriata e di una spazialità abnorme, claustrofobica o assurdamente dilatata".
s.r. (1998)