MARC DIDOU: L’IMMATERIALE DELLA MATERIA
“L'immateriale della materia”: sin dal titolo della sua ampia personale, allestita nell’ambito del Festival della Scienza fra il Museo di Sant’Agostino e la Galleria Martini & Ronchetti, Marc Didou mette in risalto la centralità che nel suo lavoro riveste l’aspetto progettuale. Il metallo, la pietra di cui la scultura si compone, mantengono per l’artista francese un’importanza non trascurabile, ma finiscono con il passare “in secondo piano rispetto ad altri materiali operativi”, quali “le lastre della risonanza magnetica o i dati informatici che permetteranno in una seconda fase di realizzare l’opera”.
Il ricorso, a partire dalla metà degli anni ’90, a questa moderna tecnica d’indagine scientifica, illustrata nei supporti apprestati da studiosi dei dipartimenti di Scienze dell’Informazione e di Medicina dell’Università di Genova, così come a tecnologie industriali nel trattamento della materia, costituisce infatti la soluzione originale di una ricerca tesa a superare l’autografia, a liberare la scultura dalla dipendenza dalla “mano” dell’artista. “Penso” – dice ancora Didou, rispondendo al curatore della mostra, Giovanni Battista Martini, in una conversazione riportata in catalogo – “di essere nella situazione di scrivere una scultura come si può scrivere una musica. La scultura esiste nella mia testa proprio come la musica è nella testa del compositore, si tratta soltanto di metterla sui fogli senza la terza dimensione”.
Didou si vale delle immagini scandite dall’apparecchiatura biomedica per ricavare sezioni del volto, delle mani, che assembla in proporzioni dilatate, nella “prospettiva rallentata”, come la definiva Jurgis Baltrusaitis, dell’anamorfosi. Ottiene così profili allungati e rovesciati, frammenti di figure che, contemplate direttamente, si distaccano dalla figuratività, recuperata poi, in un gioco ottico praticato in pittura dal XVII secolo, nello spazio virtuale (e, appunto, immateriale) d’una superficie specchiante.
Benché l’artista utilizzi in queste operazioni dati visuali raccolti sul proprio corpo, il suo percorso non approda ad un esito assimilabile alle espressioni della body art e neppure ad una sorta di autoritratto in chiave neotecnologica: l’interesse si concentra essenzialmente sul ritmo che la strutturazione sequenziale della scultura propone. “Non ho alcun messaggio da offrire” – afferma ancora l’autore – “tranne quello della scultura stessa o meglio della sua costruzione, del suo ritmo”. Un messaggio che, nota Luciano Caramel nel testo critico che apre il catalogo, “si realizza nell’interrogatività stessa della scultura” e che i visitatori possono cogliere, in opere monumentali come “Hypnos” (2005), collocata nel Chiostro triangolare di Sant’Agostino, o in “Eco” (2004) al primo piano del museo, accanto ai frammenti del sepolcro di Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, icona contemporanea di una comunicazione cercata e impossibile.
s.r. (2005)