CARLO ROMANO
(un intervento) |
Sembra quasi che la vita della città si debba spostare a comando sugli obiettivi scelti dalle giunte comunali. Al Palazzo Ducale è stato conferito, come d'altronde all'imminente restauro della zona della darsena, un valore strategico. Il sindaco di Genova, Pericu, é raggiante: dal prossimo gennaio la gestione del Palazzo Ducale diverrà interamente comunale liquidando, vale a dire sborsando la bellezza di diciannove miliardi, il consorzio imprenditoriale col quale fino ad oggi se ne è occupato. Il Comune, per giunta, confermerà le assunzioni attuate da questi "imprenditori" che non hanno rischiato nulla e hanno fatto poco di più. Il giubilo del sindaco non sarebbe in ogni caso alle stelle se la liquidazione del consorzio dovesse lasciare un vuoto nella definizione del profilo culturale che si vuole legare al palazzo. Ma - per via di qualche consulenza dovutamente retribuita o forse attraverso l'autonoma elaborazione di quel gran pensatoio che è la giunta comunale o magari in forza delle virtù intellettuali che vengono riconosciute allo stesso sindaco - non è così. Pericu ha fatto i nomi (vedasi le pagine genovesi de Il Giornale del 2 ottobre 1998) di Renzo Piano e di Germano Celant come quelli delle persone già contattate al fine di ottenere l'auspicata ottimizzazione per l'imponente, vetusta e restauratissima struttura. Benchè non sia stato ancora chiarito in quale veste potrebbero intervenire, i nomi di queste persone sono di quelli che paiono indiscutibili, tale è il rispetto che suscitano. L'aver nominato loro anzichè altri dovrebbe apparire dunque come la prova della buona volontà del comune.
Si può discutere se Pericu abbia la grazia del prestigiatore che estrae il coniglio dal cappello oppure il candore della povera bestiola, tuttavia nell'indiscutibilità dei nomi portati in cronaca si cela molte volte qualcosa di intimidatorio e in questo caso il sindaco corrisponderebbe più al nero dell'abito di scena che a tutto il resto. Non vogliamo credere che la sottigliezza delle menti di Palazzzo Tursi venga spesa in subdoli tentacoli coi quali aver da imbrigliare l'umana credulità. Tanto siamo convinti del contrario da sentirci liberi di dissentire quando venga, senza alcuna ironia, sbandierato qualcosa come la fondazione di una piccola repubblica dei saggi nel centro di Genova, perché, se è a questo che il sindaco pensa, allora non si tratta proprio né di grazia prestidigitatoria né di nero marsina, ma soltanto di bianco coniglio. Dal momento che è nostra intenzione avanzare dei dubbi sui nomi proposti dal sindaco, che egli abbia o non abbia il candore dell'ingenuità è ai nostri occhi meno importante della dabbenaggine che dimostreremmo in un caso o nell'altro se ritenessimo quei nomi, qualsiasi nome, veramente indiscutibile. Non ce ne voglia dunque lui e non ce ne vogliano gli interessati se non avremo peli sulla lingua.
Cominciamo dall'architetto. Renzo Piano ha vinto proprio quest'anno il cosiddetto "Nobel dell'architettura". Non siamo fra quelli che si scandalizzano per come e a chi vengono conferiti i premi, dipende solo da chi paga. Per noi il Pritzker a Renzo Piano o il Nobel a Dario Fo pari sono. Dario Fo ci ha fatto qualche volta ridere e l'architetto non è stato da meno, ad esempio quando ha confessato in un'intervista che ritiene saliente nelle realizzazioni del suo studio soprattutto la leggerezza. Niente di male se non ci intendessimo, come crediamo, sul significato della parola. Tolta la levità dei volumi, quello che in ogni caso ci sfugge è la sua competenza, ammesso che sia necessaria, in quel tipo di occupazione che consiste grosso modo, ammesso che voglia dire qualcosa, nell'organizzare "eventi culturali" per l'industria, ammesso che esista, dello "svago intelligente".
Su questo piano il critico d'arte numeri ne ha da vendere, peccato siano solo numeri. Non c'è infatti in tutta la produzione scientifica di Celant ("voluminosa" ma non copiosa) qualcosa che a nostro giudizio rimanga veramente memorabile. Proprio niente.
La sua fama e il suo potere derivano soprattutto da un elemento, l'Arte Povera, che si potrebbe scambiare facilmente per un'idea fissa, e le idee fisse, diceva Savinio, conducono alla dittatura. Vero dittatore per la verità Celant non lo è mai stato. Tutti i critici d'arte della sua generazione avevano l'aria di voler dettar legge in fatto di gusto, per questa ragione, dovendo accontentarsi di dividere la scena con altri, l'orizzonte del potere cui Celant poteva aspirare non superava i limiti dell'oligarchia (fare il dittatore richiede d'altronde ben altra personalità della sua e ben altro coraggio). Nel suo ambito però, vale a dire nei suoi rapporti con gli artisti e le istituzioni culturali, Celant ha agito come all'interno di quella "massa chiusa" che Elias Canetti esemplificava nelle caserme. Gli artisti che l'hanno seguito, se hanno avuto dei pregi prima di incontrarlo, incontrandolo sono diventati truppa. Questa truppa cloroformizzata dai discorsi incomprensibili del capo (ma anche da altro, naturalmente) ha ottenuto abbastanza presto l'approvazione di coloro che sono orientati a consolidare nell'arte di questo secolo pochi valori, frutto di una selezione arbitraria che prescinde dal carattere fortemente ambiguo e magmatico che ha avuto e si appella invece alle fumisterie dell'"arte eterna".
Riuscire a garantire la tenuta della truppa a tali gradi di elevazione diventa tuttavia sempre più difficile e la solidità artistica dell'Arte Povera ci sembra diventare sempre più scricchiolante, ma di questo poco ci importa. Più significativo è che Celant abbia sempre ignorato la situazione artistica genovese, quasi avesse giurato, chissà per quale motivo, di eluderla. Eppure Genova ha dimostrato di amarla (se non altro matenendovi il proprio quartier generale), come del resto l'ha dimostrato Renzo Piano.
È certo che tutto questo è frutto soltanto di opinioni. Abbiamo però motivo di credere che esse siano sufficientemente condivise. Anche fossimo soli a sostenerle, ci parrebbe tuttavia conveniente da parte del sindaco cercare di motivare le sue scelte nel modo più esplicito possibile. La situazione amministrativa di Palazzo Ducale sembra già così paurosamente precaria da non dover aggiungere confusione, velleità e quant'altro agli scopi costosi (e a quanto s'è letto sui giornali poco gratificanti) ai quali è stato destinato. Più che di ambiziose strategie ci sembra che i tempi richiedano energiche demistificazioni o, perlomeno, quella saggezza e quella fantasia di cui le istituzioni non sembrano capaci. Un sindaco che finisce sui giornali per voler sottrarre a Genova il suo simbolo, la Lanterna, è sicuramente poco saggio. Quanto alla fantasia evidentemente non la concepisce in ciò che ci è stato tramandato ma trama affinché possa essere stravolto. Eletto come indipendente, successivamente iscritto diessino, demistifica vecchi simboli senza mettere in discussione quello che merita di esserlo. Ciò di cui ci sarebbe bisogno diventa in mano sua il potere di offendere. Progressista, deve pensare che dalle consuetudini gli uomini si debbano liberare. Come ha abbondantemente dimostrato la storia, anche dalla consuetudine di vivere.