MARCEL DUCHAMP: UNA COLLEZIONE ITALIANA
A quindici anni, quando esegue la prima tela, “Passage à Blainville” (1902), il giovane Marcel Duchamp sembra adeguarsi semplicemente ad una vocazione familiare. Artista era stato il nonno materno, Emile-Frédéric Nicolle; già avviati sulla stessa via sono i fratelli Gaston (noto sotto lo pseudonimo di Jacques Villon), Raymond (Raymond Duchamp-Villon), più anziani d’una dozzina d’anni. Dopo di lui, anche la prima delle sorelle, Suzanne, diverrà pittrice. Se in un primo momento frequenta senza troppo entusiasmo, a Parigi, i corsi dell’Académie Julian (le lezioni teoriche lo annoiano e preferisce giocare a biliardo) in breve tuttavia “passa con disinvoltura e senza tregua da uno stile e da una tecnica all’altra, ansioso di misurarsi con tutte le declinazioni dell’avanguardia” (Schwarz). Si cimenta con l’Impressionismo, poi con il Fauvisme verso cui l’attraggono i colori selvaggi di Matisse. Conosce e studia Cezanne. Frequenta, con i fratelli, la cerchia cubista di Puteaux. Brucia le tappe: ad appena dieci anni dagli esordi, con il “Nu descendant un Escalier” (1912) realizza il suo primo capolavoro, lasciandosi alle spalle la scomposizione cubista della figura e il dinamismo futurista, e più in generale quella che chiama la pittura “retinica”, incentrata su valori prettamente visivi, per rappresentare con mezzi statici l’idea del movimento. Ma, nonostante gli esiti raggiunti, rifiuta di fare dell’arte una professione. Cerca “una piccola occupazione tranquilla” che gli consenta di mantenersi altrimenti. Diventa bibliotecario. E gioca a scacchi.
Forse è di qui, da quella forma di pensiero laterale implicato nella mossa del cavallo, che discende l’intuizione – semplice e rivoluzionaria – di un’opera “anartistica”, realizzata senza intervento dell’autore: una “Ruota di bicicletta” (1913) fissata a rovescio su uno sgabello. Un paio d’anni dopo, a New York, ne elabora la teoria: è l’idea del “ready made”, con cui Duchamp riporta “la considerazione estetica a una scelta mentale”. L’oggetto d’uso comune fa il suo ingresso nello spazio della galleria e del museo, inaugurando un itinerario che, attraverso Dada, il Surrealismo e la Pop Art si estende sino ai giorni nostri, mentre – attraverso il gesto spiazzante dell’artista – si delinea un’attitudine del tutto nuova nel mondo dell’arte, focalizzata su aspetti concettuali.
Ad amplificare l’eco di questa invenzione, Duchamp inscena altre provocazioni. Disegna baffi e barba sul volto alla Gioconda (“L.H.O.O.Q”, 1919). Prima ancora, nel 1917, presenta alla rassegna newyorkese dell’Armory Show un orinatoio, intitolandolo “Fontana”. Dichiarerà poi che si trattava di una messa in guardia: “un orinatoio, ben pochi possono trovarlo meraviglioso. Perché il pericolo è il piacere artistico”.
Una versione di questo lavoro, unitamente ad altri celebri “ready-made”, nelle ormai classiche edizioni curate sotto la supervisione dell’artista da Arturo Schwarz nei primi anni ’60 (presentate una prima volta a Genova nel 1967 dalla Bertesca), costituisce il nucleo della rassegna “Marcel Duchamp: una collezione italiana” ordinata nelle sale del Museo di Villa Croce, in un allestimento incentrato da Massimiliano Fuksas sulla trasparenza, da Sergio Casoli, con opere e materiali provenienti dalla raccolta di Luisella Zignone.
Si ritrovano così il celebre “Scolabottiglie” (1914-1964), la pala da neve ribattezzata “In Advance of the Broken Arm” (“anticipo del braccio rotto”, 1915-1964), in una finestra verde in cui i vetri sono sostituiti da luttuosi riquadri di cuoio nero, denominata - con uno dei giochi di parole caratteristici dell’artista - “Fresh Widow” (1920-1964), speculando sull’assonanza fra “window” (finestra) e “widow” (vedova). Ci s’imbatte nella singolare “Porte, 11, Rue Larrey” (1927), che si chiude e si apre contemporaneamente; nella partitura di “Erratum musical” (1913); nelle presine sessuate che costituivano il contributo dell’artista al catalogo dell’Esposizione Internazionale del Surrealismo del 1959, dedicata all’erotismo. Attorno, un compatto corpus d’incisioni (la serie dedicata al “Grande Vetro”, i “Morceaux choisis”), di pubblicazioni rare (fra cui la la “Boîte en valise”), di scatti fotografici, da Man Ray a Ugo Mulas, a documentare in dettaglio la vicenda del “Leonardo del secolo scorso” (Schwarz) e, nel contempo, una passione collezionistica esemplare.
s.r. (2006)