GIAN FRANCO FASCE
"La pittura di Fasce è difficile, scabra, disadorna e per nulla incline a documentare la propria misura nel particolare", scriveva nel 1956 Renato Birolli nel presentarne il lavoro in una collettiva ospitata dalla galleria Il Milione, precisando tuttavia come essa, sebbene "tutta portante", recasse in sé "una spontanea eleganza che mitiga e che potrebbe essere una prerogativa del suo stile".
A qualche decennio dalla formulazione, di fronte ai dipinti di cui si compone la prima personale dell'artista a Genova (ove da tempo Fasce è tornato a risiedere, dopo un lungo soggiorno milanese), queste osservazioni mantengono integra la loro pertinenza.
Le opere esposte presso il Centro La Maddalena - raccolte secondo un criterio che privilegia il momento iniziale e la fase estrema della ricerca pittorica dell'autore - consentono infatti di seguire il progressivo radicarsi - attraverso la riflessione cezanniana e post-cubista di dipinti come "Marina" (1952) o "Assolutamente blu" (1953) - di un'intenzionalità che, pur situandosi entro l'orizzonte dell'"Ultimo naturalismo", "sperimenta con particolare ampiezza di soluzioni le capacità costruttive della materia" cimentandosi nella "restituzione profonda dei valori sia strutturali che percettivi della realtà" (Sborgi).
La forte attenzione al dato compositivo, articolato in un sobrio gioco di masse e di variazioni cromatiche, s'innerva per d'una componente lirica che da un quadro come "Paesaggio roccioso" (1955) trapassa, oltre le "durezze come di pittura pietrificata" dei suoi più noti esiti informali, nei lavori più recenti: in "Ombra" (1987), ove la parvenza figurale assume l'andamento mobile d'una traccia scrittoria; in "Medusa" (1988), che esibisce un elaborato pattern pointilliste o, ancora, in "Apollo" (1990) nel quale l'intreccio bruno d'impronte pittoriche si scioglie nella cortina indistinta del fondo.
s.r. (1992)
GIAN FRANCO FASCE: ANTOLOGICA A VILLA CROCE
Da qualche tempo il Museo di Villa Croce sembra essersi attestato a presidio d'una sorta di "linea ligustica" dell'arte novecentesca, raccogliendone in una galleria ideale i nomi più prestigiosi, da Scanavino a Fieschi, da Borella a Mesciulam e Sirotti. Alla base di questo dato sta una visione del museo come spazio regionale, sia a livello d'utenza sia come opportunità di sviluppo delle raccolte, peraltro fondate su una collezione ben diversamente impostata. Se vanno riconosciuti ad un simile approccio caratteri di praticità e di giusto rapporto con le risorse disponibili non se ne può celare di contro il tratto passivo, incline a privilegiare valori assodati a scapito d'una tempestiva informazione sugli svolgimenti contemporanei dell'arte. Fra la pretesa di realizzare un museo "generalista", modellato su disincarnati paradigmi internazionali, ed il concentrarsi su una prospettiva autoctona si apre una dimensione che l'apporto di professionalità esterne allo staff permanente darebbe modo di esplorar meglio. Anche con vantaggio per gli artisti liguri, ai quali una programmazione più intrigante consentirebbe di riscuotere maggior interesse per le loro sortite espositive a Villa Croce.
Una sollecitazione in questo senso viene indirettamente dall'esperienza dell'artista cui oggi il museo dedica un'antologica curata da Sandra Solimano. Gian Franco Fasce rappresenta infatti storicamente l'antesignano di quanti nel dopoguerra, per vivere in presa diretta la vicenda pittorica del loro tempo, si sono risolti a misurare fuori dall'ambiente genovese le proprie qualità.
Quando nel 1952 prende studio a Milano, l'artista ha alle spalle dipinti "di un sintetismo geometrizzante su schemi post-cubistici" (Calvesi), qualche scultura ove "l'estrema semplificazione dei volumi trae evidenza espressiva dalla brutalità stessa del materiale" (Sborgi). Dopo una prima fase distinta dal perdurare dei contatti con gli ambienti astratto-concreti, documentati dalla personale alla galleria Numero di Firenze (1952) e dall'esposizione del 1953 alla galleria B24 di Milano con il gruppo genovese del MAC, la frequentazione di Birolli, Cassinari, Morlotti, Ajmone, Chighine contribuisce ad orientare Fasce verso la tendenza informale che in quegli anni si andava affermando.
La figura di Birolli in particolare si delinea essenziale nella svolta. La sua lezione traspare in opere come Marina (1953) e nelle tempere coeve esposte da Nino Bernocco al Centro d'Arte La Maddalena nell'autunno scorso. Suo è anche il testo che accompagna la prima uscita dell'artista al Milione di Gino Ghiringhelli, nella mostra "Quattro pittori dell'ultima generazione: Carmassi, Fasce, Ferrari, Pulga" tenutasi nella primavera del 1956.
Qui si rinvengono alcuni concetti chiave per la comprensione dell'opera di Fasce. Anzitutto il riconoscimento del carattere "difficile, scabro, disadorno" d'una pittura "per nulla incline a documentare la propria misura nel particolare" bensì "tutta portante", tesa a stabilire "l'unità dello spazio in un'argentea e bruna severità". Quindi il suo disporsi in equilibrio fra dato fenomenico e impulso costruttivo, "il suo essere contemporaneamente del senso e della mente". L'affiorare, in ultimo, d'"una spontanea eleganza che mitiga" e s'innalza a prerogativa di stile.
Opere come Figure di periferia o Città (1956), con il teso alternarsi di grigi rabbuiati e chiari, rientrano in pieno nell'orizzonte fissato da Birolli. Come pure Petraia (1958), dall'articolazione slabbrata e concentrica. O Direzionale (1960), dove marcati tratti ascendenti si distendono a contorno d'un nucleo evanescente.
Negli anni '60 la solidità strutturale degli impianti ed il riflesso petroso dell'immagine lasciano il campo a forme più mobili ed a nuove intensità di colore. Gialli, arancio, viola, bruni screziano la tela de l'Estate ligure (1962) mentre in Sera (1963) i toni verdi scendono corsivamente a velare gli aloni luminosi. Ma l'accentuarsi delle componenti percettiva e lirica non si attua a prezzo di una perdita di concentrazione: ancora "lo studio del naturale viene progressivamente decantato sino a far prevalere una rigorosa analisi di quei valori che sono portanti nella ricerca pittorica di Fasce, cioè organizzazione dello spazio e calibrato equilibrio dei valori cromatici e materici" (Sborgi).
In quel torno di tempo l'artista coglie decisive conferme: espone ripetutamente al Milione, alla Biennale di Venezia (nel 1966 con una sala personale), partecipa a mostre itineranti negli Stati Uniti ("The New Generation in Italian Art", 1960-62). Suscita l'interesse di critici di primo piano, come Russoli, Valsecchi, Tassi, Emiliani, Caroli. A Genova torna stabilmente nel 1968, come professore di ornato nel nuovo liceo artistico ora intitolato a Paul Klee. Tiene la cattedra per un ventennio, nonostante la grave malattia che lo colpisce nel 1981 sottraendogli l'uso della mano destra.
Con l'inizio dell'attività didattica coincide un calo d'interesse per l'informale, soppiantato prima dalle sperimentazioni cinetiche, poi dall'arte povera e concettuale. Bisogna attendere il decennio scorso per un primo rinnovarsi dell'attenzione, soprattutto in sede storica. Fasce prosegue comunque il proprio cammino, toccando risultati alti in molte fra le opere del periodo esposte a Villa Croce, da Distacco (1971) a Rami d'inverno (1978). Al tempo più recente appartengono lavori che testimoniano un'intatta volontà di ricerca, affidata talora al legame energetico fra chiazze di colore (Settembre sotto la pioggia, 1988), più spesso ad orditi di linee appena ondulate (Fogliame, 1992). Sempre attenta, comunque, a riportare la suggestione avvertita ad una trama ordinatrice leggera e inderogabile.
s.r. (1997)