FUORI QUADRO
Ci s'interroga sull'oggetto. Ci piacerebbe sapere cosa vuole da noi. O cosa vorremmo farne. Il fatto è che non dice assolutamente nulla. Che rimane noncurante della nostra perplessità, arginato nei suoi contorni. Per non rimanere arenati ci studiamo di seguire la tracce che, qua e là, ha lasciato impresse. Ma finiamo per scorgerne ovunque il segno, o pressappoco. Dal Cubismo scantoniamo in Dada: ci inerpichiamo lungo i versanti scoscesi del sogno (e dell'azzardo) surrealista per emergere nei panorami accattivanti del Pop. O, appartati, ci raccogliamo a praticare i rituali rabdomantici dell'Arte Povera. Più d'un intoppo - un vicolo cieco, un ostacolo sistemato a bella posta - avverte che si tratta di vie desuete, forse pericolose; che i sentieri dell'avanguardia sono interrotti. Pannelli luminosi segnalano altre vie, più scorrevoli, circuiti dove l'azzardo è ragionevole e non si rasentano precipizi. Qui le regole sono chiare e a nessuno converrebbe infrangerle. Chi vuol correre deve aver grinta, saper cambiare ritmo al momento giusto. Non è la resistenza a far premio: soprattutto occorre essere veloci, scansare le mischie, dosare lo sforzo per piazzare lo spunto vincente.
Nei suoi ultimi travestimenti l'oggetto non porta sul volto, se non di rado, l'ironica maschera apprestata da Duchamp né veste i paramenti simbolici ricamati da Breton. Ad essi preferisce i panciotti chiassosi di Depero o le enormi brache di Oldenburg. Ha cambiato umore, divenendo effervescente e sollazzevole. Ha mutato carattere, anche. Non vuol più provocare o sedurre tortuosamente; apparire angosciante o impenetrabile. Al contrario vuol piacere al primo incontro. Essere compreso sin dal primo sguardo. Perciò scopre subito le sue carte. Anzi, in certo qual modo le ostenta.
Il suo nemico rimane quello di sempre: la rappresentazione. Da un po' di tempo la pittura s'è rifatta tracotante, aspira a soffocarlo, si sforza di tenerlo sott'acqua. Riaffiora però sempre, in un punto o nell'altro, senza affanno. Sa che nessun réfoulement può riuscire del tutto, che la pulsione repressa finisce col trovare una breccia, uno sfogo.
Non è per nulla scandaloso che qui se ne incontrino tre volti. Ne esistono, senza dubbio, molti altri: si tratta, nè più né meno di afferrare Proteo. Chi vi sia riuscito, se Crosa, Galletta o Porcelli, se tutti e tre o nessuno, è questione che ciascuno dovrà risolvere per conto proprio. In generale quel che preme è piuttosto fissarne i termini o, se si vuole, formularla come aporia affermando la validità delle opzioni in contrasto, per cui:
- da un lato il procedimento di Andrea Crosa, squisitamente pittorico, si articola sul conflitto fra l'oggettualità incontrovertibile del supporto e la virtualità delle soluzioni figurative che vi si realizzano, sfruttando - anche - il dislivello fra l'arguzia dell'ispirazione ed il rigore outré delle forme.
- Giuliano Galletta si vale, al contrario, di oggetti - incrostanti dall'uso d'una patina consuetudinaria e feticistica - che vela densamente di colore (e quindi incornicia: a mezza via fra l'ex voto ed il trofeo entomologico), escludendoli dalla condizione loro propria per farne scaturire, subliminalmente, una debole valenza simbolica.
- Antonio Porcelli, infine, dopo essersi cimentato in una pratica decorativa ove l'oggetto assumeva la funzione, essenziale, di elemento di complessità, ha recentemente inaugurato una nuova fase, nella quale le connotazioni pop s'intrecciano ad altre di matrice surreale e dagli assemblages - talora ridondanti - paiono germinare, informi e vivide, invadenti, le molecole di una materia aliena.
Sandro Ricaldone
dal catalogo di Fuori quadro - Ocra/Ufficio - Sarissola 1986