IL PRINCIPE TORNA IN PIAZZA
Lorenzo Garaventa e la "ricostruzione" della statua di Andrea Doria
Dopo due secoli, l'effigie monumentale di Andrea Doria, sta per tornare nella sua sede storica, in posizione dominante accanto all'ingresso del Palazzo dei Dogi. Abbattuta e frantumata sul finire del '700, insieme alla figura del nipote Giovanni Andrea che le faceva riscontro all'altro lato del portale, dai giacobini che vi scorgevano il simbolo per eccellenza del regime aristocratico da cui per secoli era stata retta la Respublica genovese, la statua del Principe scolpita da un allievo di Michelangelo, Giovanni Angelo Montorsoli, ha subito lunghe vicissitudini. Dopo un lungo ricovero nei sotterranei del Palazzo (durante il quale, sembra, si tentò infruttuosamente di venderla come blocco di marmo da riutilizzare) fu collocata dapprima nei giardini della Villa di Fassolo e quindi nel complesso di San Matteo. Negli anni '30, Orlando Grosso la riportò a Palazzo Ducale dove rimase sino agli anni '80 per essere da ultimo trasferita nei depositi del Museo di Sant'Agostino.
Nata nell'ambito del progetto della mostra "El Siglo de los Genoveses", l'idea di ricostituire e reinsediare le statue dei Doria sui basamenti fatti edificare dal Cantoni nel corso dell'intervento ricostruttivo seguito all'incendio del 1777, si è rivelata un'autentica sfida. Propugnato dal presidente della Società cui il Comune ha recentemente affidato la gestione di Palazzo Ducale, Arnaldo Bagnasco, e sponsorizzato da Coopliguria, il recupero si scontrava con difficoltà quasi insormontabili. L'entità delle lacune rendeva funzionalmente impraticabile la prospettiva del semplice restauro (in termini di bonifica, di pulitura, d'integrazioni marginali), mentre l'inesistenza di supporti iconografici non avrebbe consentito neppure di riprodurre in maniera attendibile gli originali. Per superare l'impasse si è deciso di affidare l'operazione ad uno scultore che fosse in grado di restituire la poetica dell'opera attraverso l'interpretazione dei volumi, integrando la ripresa degli elementi originali in una costruzione coerente dal punto di vista stilistico e plasticamente vitale. La scelta è caduta su Lorenzo Garaventa, una delle figure di spicco della scultura italiana del secolo che sta per chiudersi, fra i pochissimi in grado - per la qualità artistica espressa in oltre un sessantennio di attività e per il magistero tecnico - di affrontare l'impresa. Genovese, nato nel 1913, allievo di Eugenio Baroni, Garaventa assorbe infatti negli anni del soggiorno fiorentino, fra il 1936 ed il 1940, la lezione della grande scultura del passato, dalla staticità degli impianti volumetrici romanici e gotici al classicismo della statuaria rinascimentale. Un'esperienza decisiva per l'artista che pure si aprirà - negli anni del dopoguerra - ad una disposizione sperimentale spinta al margine dell'astrazione, spaziando fra modalità costruttive di ascendenza cubista e forme di matrice biomorfa. E proprio la costante rimeditazione del tema figurale alla luce delle "suggestioni di esperienze classiche" e la profonda "esigenza di controllo della struttura volumetrica e compositiva" (Sborgi) sembrano aver giocato un ruolo non secondario nel convincente esito raggiunto.
Attraverso un procedimento complesso, muovendo dai calchi delle parti conservate (consistenti essenzialmente nei torsi), l'artista, coadiuvato da una equipe formata da Luisa Caprile e Marta Parmeggiani, ha gradualmente rimodellato in creta gli arti secondo conformazioni congruenti alle articolazioni rimaste e in ultimo il capo, ispirandosi ai ritratti del Doria e ad altre opere del Montorsoli. Assemblate e levigate le diverse parti sono state fatte delle copie in gomma siliconica, poi delle "madri-forme" per la stampa in vetroresina.
La statua che domani verrà scoperta dal Sindaco Pericu è appunto un esemplare in vetroresina della statua del Principe, il cui modello in gesso è da giorni esposto dinanzi al Salone del Maggior Consiglio. La statua di Giovanni Andrea Doria, dall'originale di Taddeo Carlone, sarà invece completata solo in primavera. Il ritardo, derivato in parte dalle immancabili complicazioni burocratiche, ha impedito la traduzione in marmo delle sculture, previsto in origine. Di qui il cruccio di Garaventa che, citando il Canova, ricorda come per la scultura "la creta è la vita, il gesso la morte, il marmo la resurrezione". "No, insiste l'artista, "Genova non può lasciare che nel 2004, quando sarà capitale della cultura, all'ingresso di Palazzo Ducale siano esposte due statue in vetroresina, un materiale che non consente di toccare autentiche sensibilità espressive. Non mi stancherò mai di ribadire che le statue devono essere tradotte in marmo, scolpite nei blocchi di quelle stesse cave apuane da cui sono stati ricavati gli originali." E si lascia sfuggire, in ultimo, una frase in apparenza giocosa, da cui però traspare un convincimento profondo: "Finché c'è marmo c'è speranza".
s.r. (dicembre 1999)