Hozro: materiali sulle arti visive a Genova







STEFANO GRONDONA

LA STANZA DELLE MERAVIGLIE

Scriveva un poeta uggioso (e perciò forse giustamente celebre) che l'uomo conosce il mondo non per quel che vi toglie ma per quanto egli stesso v'aggiunge. Si dà però anche l'inverso. In quest'ambito ulteriore - di "sottrazione", vale a dire di un'assenza volutamente rimarcata - si inscrive l'opera di Stefano Grondona. Gli ambienti che costruisce, attraverso una paziente impressione fotografica, appaiono non solo sgombri di figure umane ma scevri d'accadimenti sia pur minimi. Non un soffio altera le loro superfici impeccabili, elementari eppure labirintiche, al più un colpo di luce balena fra i toni neutri, grigi e neri. Benché rassegnate ad un destino d'immobilità, le cose - dilatate da una prospettiva appiattita - invadono la scena: pareti e pavimenti ossessivamente decorati, apparecchi radio muti, tappeti istoriati con minuzia.
Ci soverchiano le atmosfere, definite e , insieme, ipotetiche. L'incrocio con il design postmoderno vi si realizza come tappa involontaria d'un tragitto stabilito non fra i panorami accattivanti del gioco, bes - in disparte - verso i flutti geometrici in cui ancora si bagnano inquietanti le Muse.
Respinti come estranei da questi recessi metafisici, si fa sosta al loro margine, ansiosi, attendendo che ne sia sciolto l'enigma. Ma cos'altro, poi, ameremo in sua vece?

s.r. (1985)



MEMORIE FREDDE

Il fatto che Baudrillard provi, oggi (ne fa fede il volume da cui è ripreso il titolo di questa mostra), il bisogno di ribadire l'ipotesi nervaliana del sogno come "seconda vita", riserva intatta di energie non soggetta a determinazioni temporali, in grado persino di eccedere la peripezia della morte, sta ad indicare come quest'idea radicale si protenda tuttora ad assicurare all'immaginario un inner space immune dalla normalizzazione terapeutica e dall'estasi comunicativa; attesta con egual forza la presa che il sogno esercita sulla contemporaneità e la perplessità acuta in cui ci sprofonda.
La reciproca irriducibilità di reale ed onirico pone il problema dell'interferenza fra questi due ambiti: della possibilità di istituire fra essi, attraverso la memoria, una connessione perdurante nella veglia o - per converso - secondo un'aspirazione espressa da Schopenhauer, di assumere il ruolo di "invisibile direttore del teatro dei propri sogni".
Il procedimento complesso, calcolato ma aperto alla suggestione dell'evento casuale, impiegato da Stefano Grondona - l'esposizione alla luce di una carta sensibile mediante una sequenza di mascherine diversamente sagomate - trasmutando il segno dell'autore, straniandolo da ogni caratterizzazione emotiva, deposita l'immagine - congelata - su una sorta di schermo.
Grondona pare sollevi istantaneamente una palpebra pesante, mettendo a fuoco uno scenario di immobilità assoluta, un "sogno di assenza" che la luce imprime sulla retina disegnandovi in minuziosi particolari (nei quali si coglie una mise en abîme di frammenti filmici o di schemi iconografici, da Blue Velvet, di Lynch, a Munch) stanze dominate dal vuoto, dall'inquietudine di ciò che "non" vi accade, pericolanti in prospettive scoscese, che appena lasciano avvertire la vibrazione molecolare da cui sono percorse; ove gli oggetti assumono pose indifferenti e crudeli: inerti arredi d'un universo ridotto a dimensioni cubicolari, il cui segreto è il nulla stesso (prossimo più forse all'azzeramento mistico di quanto non sia all'enigma metafisico) che lo abita.

s.r. (1987)



STEFANO GRONDONA

Mentre "Fourteen Young Emerging Italian Artists from Liguria" si trasferisce dal Museo Italo Americano di San Francisco alla galleria Katia Lacoste di San José, l'interesse sollevato in campo internazionale dal lavoro dei giovani artisti genovesi trova ulteriore conferma nella mostra di Piergiorgio Colombara e Stefano Grondona allestita a Zurigo dalla Galleria Colonie Libere Italiane (il cui nome riprende quello d'una lega dell'emigrazione antifascista, tuttora attiva in Svizzera).
Colombara vi propone una serie di nuovi lavori che costituiscono un'elaborazione del discorso che da anni va conducendo "in uno sfumato terreno di scambio fra esercizio sul mezzo pittorico e recupero delle valenze comunicative dell'oggetto" (F. Sborgi).
In essi (in particolare in "Autoritratto" e "Ritratto sfuggente" entrambi dell'87 ed in "Fuga", 1988, che esibisce una figura inclusa in un vuoto contornato di canne d'organo) Colombara acuisce la dimensione evocativa, di accadimento definito attraverso frammenti di profonda risonanza, sorpreso nell'istante che precede il suo rendersi esplicito.
Grondona espone invece il ciclo della "Stanza delle meraviglie", già noto a Genova per essere stato presentato al Circolo B.N.L. e quindi all'Unimedia all'esordio (ripetuto ma autentico) di questo artista, fra l'85 e l'86.
Le opere ultime, di cui la Galleria Il Vicolo ha ordinato una rassegna, rappresentano in parte preponderante diramazioni ricche d'inventiva e tutte segnate da una caratterizzazione stilistica compiuta (sia che si tratti dell'assemblaggio di mascherine in cartoncino colorato sia che, invece, consistano in contorni tracciati a matita su tela "intonacata") di quella "utilizzazione concettuale degli effetti della ripresa fotografica" mediante cui sono stati realizzati i lavori in mostra a Zurigo ed altri precedenti ora visibili al Vicolo 1 e che fa dell'autore un caso realmente unico nel panorama della produzione artistica contemporanea.

s.r. (1988)





STEFANO GRONDONA: CLAUSTROFOBIA

I - Una stanza. Chiusa. Pareti sghembe, come in una scenografia di Warm per il Caligari. Nessuna praticabile via d'uscita. Le sole aperture, in alto, appaiono ostruite da grate metalliche. Una Percezione dell'universo claustrofobica (ma anche, si direbbe, claustrofilica): un cosmo recluso, compresso in una struttura cubicolare, nel quale si registra la presenza minaccevole d'un congegno (il tubo di "Dune"?) fornito di artigli, da cui si sprigiona una fiamma che - al centro dell'immagine - s'innalza sino a lambire il lampadario. Il registro cromatico inusuale della trascrizione ricavata dal montaggio dei diversi piani della composizione profilati su cartoni di vario colore, ove il rosa si sostituisce al rosso acceso, ne rivela la natura d'avvampare freddo, ambivalente, evocatore d'una selva di rimandi estesa dalla colonna di fuoco, rigeneratrice e distruttrice ad un tempo, della pseudoleggenda sincretistica di Ayesha (la Donna eterna di Ryder Haggard) all'incendio che arde e non consuma del roveto biblico. Non si tratta, qui, dello stato di rêverie che - secondo l'investigazione di Bachelard - può venir indotto dalla contemplazione del lume, sfocato e mobile, d'una candela; ad entrare in gioco è piuttosto il carattere insieme unitario e molteplice che Blake attribuisce all'immaginazione, tramite al mondo eterno degli archetipi "per virtù della quale", commenta Givone, "una e identica in tutte le sue manifestazioni" - se di natura artistica od, invece, propriamente mistiche, è irrilevante, giacché comunque prodotte da spirito di profezia - si presenta la visione. Il tratto non meramente fantastico ma, appunto, visionario dell'opera di Grondona si palesa anche negli altri lavori realizzati per la mostra in allestimento al Caleidoscopio di Alessandria: segnatamente in Percezione dello spazio, vero e proprio tour-de-force di alterazioni prospettiche, di fratture dissimulate, spiegato attorno ad un elemento centrale costituito da un calorifero (di nuovo una citazione dal cinema di Lynch, da Eraserhead) animato e distorto quasi replicando l'istantanea contrazione dell'organo cardiaco. In Punto fermo al centro dell'universo (che con il disegno/progetto di Attendere l'alba - sequenza dei campi visivi di un individuo che si accinge a precipitarsi nel vuoto - completa la rassegna) un grande specchio duplica - niente affatto illusoriamente - i rigidi volumi che definiscono l'ambiente in un'aura di stasi assoluta, ove lo stato di pericolo è denunciato dalla lametta abbandonata sull'orlo del lavabo e un doppio universo viene risucchiato nei tubi di scarico, attraverso imboccature minuziosamente decorate.
II - Se la componente visionaria, l'onirismo lucido che trova compiuta espressione in taluni fotogrammi cinematografici rappresenta il nucleo tematico sondato, in termini del tutto personali, da Grondona, il suo procedimento formale - al contrario - risulta segnato da una definita aspirazione all'estraneità. Sin dalla prima elaborazione, nel disegno per così dire preparatorio (ma che non è, in effetti, che un "primo stato" dell'opera, destinata a ri/prodursi ed a sperimentarsi in altra, diversa condizione), la costruzione dell'immagine viene ottenuta attraverso schemi geometrici complessi che assumono la funzione di neutralizzare il segno dell'artista. Non casualmente le due fondamentali varianti praticate da Grondona in ambito disegnativo tendono a sottolineare, per un verso, determinate qualità dei supporti (così il ritocco, con olio di lino, di cartoni grezzi) od a porre invece in rilievo la nettezza del tratto (mediante la preparazione "ad intonaco" dei fondi). Analogamente, le trasposizioni realizzate sovrapponendo le mascherine ricavate dall'intaglio in cartoncino colorato dei profili di parti destinate ad acquisire, nell'impressione fotografica che costituisce il limite ultimo di sviluppo del lavoro, la medesima tonalità di grigio, pur nell'estrema vivezza e nei contrasti dei colori impiegati mantengono questo carattere spersonalizzante, privilegiando l'asetticità d'un materiale prodotto industrialmente all'intervento pittorico (sempre compromesso emotivamente) dell'autore. Così accade infine anche nel caso della stampa fotografica realizzata direttamente "in positivo" esponendo alla luce, attraverso la sequenza di mascherine cui s'è accennato, una carta sensibile. Qui tuttavia il discorso si amplia per l'influsso che elementi impercettibili (dall'umidità dell'aria alla temperatura, da minimi scarti nei tempi dell'esposizione e nell'intensità della luce) finiscono con l'esercitare, dando luogo ad esiti che contraddicono radicalmente il mito della riproducibilità tecnica dell'opera, esiti che si rivelano sempre fra loro discrepanti in ragione dell'incontrollabilità (d'altronde consapevolmente ricercata) delle variabili in gioco nel procedimento, a dispetto dell'unicità della matrice.

s.r. (1989)

 



STEFANO GRONDONA AL CALEIDOSCOPIO

Ad un anno dalla vasta personale tenuta al "Vicolo" (galleria che ne ha recentemente riproposto l'opera nell'ambito della rassegna organizzata dall'Associazione Ligure dei galleristi d'arte contemporanea in occasione di "Primavera '89") Stefano Grondona presenta i suoi ultimi lavori al Caleidoscopio, un giovane spazio alessandrino diretto da Roberto Ottonelli.
L'artista prosegue - nei pezzi realizzati per la mostra - la ricerca di una immagine percorsa da illuminazioni visionarie, configurata mediante un insieme di tecniche (dal disegno soste10nuto da una rigorosa costruzione geometrica, all'intaglio e montaggio di cartoni di vario colore, all'impressione fotografica ottenuta esponendo alla luce, attraverso mascherine disposte in sequenza, riquadri di carta sensibile) preordinate ad una assoluta spersonalizzazione del segno.
Le opere in mostra costituiscono una sorta di ciclo che si avvia con "Percezione dell'universo" : un ambiente claustrofobico, delimitato da pareti sghembe, ove è rinchiuso un congegno inquietante, fornito di artigli, da cui si sprigiona una vampa fredda, evocatrice di pensieri senza misura, d'immagini senza limite ("Dentro una fiamma non vive forse il mondo?", scriveva Bachelard) che sale, al centro, a lambire il margine della composizione.
Completano la serie "Percezione dello spazio", uno straordinario tour de force di alterazioni prospettiche sviluppato attorno ad un elemento centrale - un calorifero in cui può cogliersi una citazione filmica (da "Eraserhead") - assoggettato ad una torsione violenta; "Punto fermo al centro dell'universo", ove il reale è risucchiato attraverso gli scarichi di un lavabo ed un grande specchio duplica l'enigmatica parvenza del vuoto.

s.r. (1989)







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