Hozro: materiali sulle arti visive a Genova






R. Kriester - Latomie, 1997



RAINER KRIESTER: LA VOCE DELLE ORIGINI

Urlo e silenzio, inquietudine e speranza, spunto realistico e approdo simbolico: nella tensione fra queste polarità contrastanti si può rintracciare la sostanza dell'opera di Rainer Kriester, l'artista tedesco che in Liguria ha preso dimora da oltre un quindicennio, realizzando a Castellaro, presso Albenga, un complesso di sculture all'aperto unico nel suo genere. A testimoniare il carattere complesso di questa ricerca, mai appagata, viene una vasta rassegna allestita a Palazzo Ducale, "La voce delle origini", che si inaugura oggi, nel clima di concitazione creato dalle notizie di una possibile chiusura della sede genovese dei Goethe Institut, una delle istituzioni che con il Comune ha promosso la manifestazione. Contro questa ipotesi Kriester stesso ha preso posizione con una lettera indirizzata al Ministro degli Esteri tedesco, Joshka Fischer, resa pubblica nel corso della presentazione dell'iniziativa. Nel suo appello l'artista rivendica la tutela della creatività, sovente "posta in minoranza" anche se in essa "risiedono i valori della ragione", e ironicamente afferma di voler reagire alla ventilata catastrofe al modo degli antichi Sumeri, scagliando la sua freccia contro il cielo, con l'auspicio che possa cogliere nei segno.
Al di là dell'evento paventato, la protesta di Kriester ha radici profonde nei suo lavoro. Il tentativo di ritrovare, scavalcando i1 tempo scandito dai numeri incisi nelle sue stele-calendario, "la voce delle origini" e la speculare "nostalgia di Futuro", cui - afferma Mario De Micheli in catalogo", si oppongono infatti polemicamente al "continuo presente" che la società contemporanea è ridotta a vivere nell'imperversare dei media e dei rituali consumistici, privi di verità e persino di reale consistenza. In questa visione, acutamente sensibile ai rischi della manipolazione dell'uomo, si riflettono d'altronde le esperienze maturate nel corso di una vicenda biografica segnata dalla formazione avvenuta negli anni del dopoguerra nella Germania Orientale e dalla progressiva presa di coscienza del carattere oppressivo dell'ideologia di Stato (che costò al giovane Kriester un anno di carcere) e - in seguito - dalla decisione di fuggire dalla DDR e dalla vita condotta a Berlino Ovest negli anni della guerra fredda e della costruzione del muro.
Se da principio il disagio dell'artista si manifestava nella scomposizione della figura umana in "frammenti" (mani, torsi, teste) rappresentati secondo violente modalità espressionistiche, nel corso degli anni '80 si è fatto strada un nuovo atteggiamento, modulato su cadenze evocative e simboliche. Il percorso espositivo, scandito dai massicci pilastri grigi del sottoporticato, ne dà conto attraverso la collocazione, nella prima sala, di due sequenze giustapposte: la prima costituita da teste in bronzo, in cui i volti appaiono stretti in maschere appuntite, solcati da tatuaggi, schermati da bende che appena lasciano scoperta la bocca, contratta in un grido sospeso, in una smorfia dolorosa, la seconda di sculture in pietra di Finale, marcate con tratti uniformi che definiscono in modo essenziale immagini ad un tempo geometriche e simboliche.
Sono queste ultime a tenere il centro ideale della rassegna, che si espande con pezzi di maggior dimensione nei cortili del Palazzo e - all'esterno - coinvolge gli spazi di Piazza De Ferrari e di Piazza Matteotti. Tracciati radianti o stellari si innestano attorno al profilo di un occhio o si diramano da forme circolari, creando una sorta di nuovo linguaggio ideogrammatico, la cui evidenza si ribalta in enigmaticità. Da questo estremo di concentrazione, evocatore di esperienze ancestrali e cosmiche, l'artista procede ad un recupero di forme più evolute, introducendo nei suoi lavori, attorno alla metà degli anni '90, il numero e la scrittura.
Del numero Kriester si vale non solo nelle già ricordate "stele-calendario", dove il flusso del tempo risulta consegnato ad una registrazione priva di qualsiasi regolarità, ma per rivestire di una sorta di "pelle cifrata" le "teste". L'utilizzo della scrittura consente invece all'artista di includere nelle tavole in legno od in ardesia applicate su alti supporti metallici i versi di poeti per cui sente particolare affinità, da François Villon a Cesare Pavese, da Pablo Neruda ad Eugenio Montale. Neanche questi riferimenti ad autori contemporanei però - nonostante l'apparenza - implicano l'emergere di un nuovo atteggiamento verso il presente storico, giacché - come osserva Luciano Caprile, curatore della mostra - ciò che viene sottolineato è piuttosto "l'atemporalità di un verso, di un pensiero"; non "l'appartenenza ad un popolo o ad un momento specifico" ma "un problema relativo all'uomo nella sua complessità".
Fra le ultime realizzazioni i "Feticci", filiformi assemblaggi di materiali di recupero, e le "Porte", stretti varchi aperti dall'artista nel marmo. Anche a prescindere dal valore sintomatico assunto dall'emergere di questo universale emblema di oltrepassamento alle soglie del nuovo millennio, risulta interessante il fatto che, cronologicamente, la mostra di Kriester termini su un'apertura nuova, in linea con la divisa che egli professa da sempre, ribadita nel volumetto di conversazioni con Enrica Merlo, "Il mestiere dello scultore" (edito da Le Mani in occasione della mostra): "bisogna fare quello che non è mai stato fatto".

s.r. (1999)




R. Kriester - Totenbuch II, 1996





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