Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





MODULAZIONI E ALCHIMIE DI LE PARC

Quindici anni d’attività, più di cento mostre, un patrimonio di tremila opere raccolte in prevalenza tramite donazioni. Di queste, un migliaio costituiscono uno dei più importanti fondi d’arte contemporanea genovese (con limitate proiezioni sull’area ligure) oggi esistente. Dato un simile presupposto, risulta del tutto naturale che, concluso il Novecento, il Museo si dedichi a definire un quadro complessivo delle acquisizioni e delle ricerche svolte in quest’ambito, divenuto negli ultimi anni – anche per effetto della concentrazione delle mostre temporanee di maggiore impegno a Palazzo Ducale - il nucleo centrale della sua missione. Lo fa, come d’uso, con una mostra che riunisce lavori di matrice pittorica di trentanove artisti attivi in Liguria (cui dovrebbe far seguito, in tempi ancora non definiti, una analoga iniziativa incentrata sulle collezioni di scultura), e con un catalogo, edito da Silvana, che riporta le schede delle opere di ogni singolo autore presente in rassegna, conservate nei depositi. Al di là delle motivazioni, per così dire interne, che hanno spinto i responsabili della struttura museale a promuoverne l’allestimento, l’esposizione ha di fronte, come misura del proprio successo, un obiettivo decisamente arduo: la revisione dei giudizi di valore che hanno posto in sottordine la vicenda ligure dell’arte dell’ultimo cinquantennio, ignorata come tale nelle principali pubblicazioni storiche come “La pittura in Italia”, edita da Electa, che pure riserva ampi spazi ad altri contesti regionali. Dispiace perciò – sebbene sia scontato l’impegno a colmare i vuoti - che la mostra si presenti come un mosaico non terminato. La generosità di molti artisti o dei loro eredi e la disponibilità dimostrata da alcuni galleristi non impediscono di notare come le tessere mancanti siano ancora molte. Clamorosa quella di Scanavino, provvisoriamente rimpiazzata con il prestito di un’opera proveniente dalla collezione di Gian Piero Reverberi, ma significative anche diverse altre, in particolare sulle aree geografiche spezzina e savonese, od in tema di informale naturalistico e di poesia visiva. E, ancora, numerosi paiono i vuoti nelle file delle generazioni ultime, al cui proposito torna alla memoria la proposta, non accolta, avanzata negli anni ‘80 da alcuni giovani autori, sollecitati da Giancarlo Gelsomino, di una donazione di loro opere al museo e, più ancora, l’entità, al limite dell’inconsistenza, del budget annuale per gli acquisti. La mostra comunque è tale da smentire l’idea corrente, secondo cui l’arte prodotta in Liguria nella seconda metà del secolo appena concluso rivestirebbe tratti di provincialismo. Delle figure di riferimento in tendenze internazionali come Scanavino per lo Spazialismo, Fieschi per la Nuova Figurazione, Martino Oberto per la Scrittura Visuale e Claudio Costa per l’Arte antropologica non è necessario dire. Ma lo stesso vale per il contributo di Mesciulam nell’ambito del Movimento Arte Concreta, testimoniato da composizioni del 53/54, ancor oggi attualissime, che avrebbero potuto insegnare qualcosa ai gruppi milanesi e torinesi, o magari ai coevi concretisti svizzeri; per il virtuosismo e gli apporti tecnici esibiti da Caminati negli iperrealistici “volti-nazione”, o ancora per i “guard rail” realizzati da Borella nei primi anni ’70, con un occhio puntato sull’arte optical e l’altro sulla segnaletica pop. Negli spazi del Museo, dalla mansarda ai fondi, la mostra si articola in comparti scanditi cronologicamente, nei quali le opere ispirate a correnti diverse sono accostate in base a criteri di compatibilità o giustapposizione formale. Così nello spazio dedicato agli anni ’50 convivono il geometrismo dinamico di Mesciulam, l’informale di Allosia, la “tabula rasa” anaestetica e la ricerca di espressività primaria del segno di Martino Oberto. Alle soglie del successivo decennio s’incontrano la rielaborazione del paesaggio di Chianese e gli approdi informali di Fasce e di Raimondo Sirotti (quest’ultimo presente con il tenue e bellissimo “Rosa gremito di luce” del 1961). Gli artisti di Tempo 3 (Bargoni, Carreri, Esposto, Guarneri, Stirone) rendono la misura di un astrattismo in cui razionalità e lirismo trovano esiti esattamente equilibrati, mentre Corrado D’Ottavi è solo a documentare la declinazione poetico-visiva incentrata sul ribaltamente critico delle tecniche proprie dei mezzi di comunicazione di massa. Gli anni ’70 vedono allineate, oltre alle ricerche antropologiche di Costa, la variante poveristica di Beppe Dellepiane (con gli esiti alti della “Madonna della seggiola”, una cassa in legno antropomorfizzata, e del “Biciclo” di rami) e i “percorsi umani” ricostruiti con foto e diagrammi da Luisella Carretta. L’essenziale “Giganto-grafia” ritmicamente tracciata in sequenze di punti neri su un rotolo di carta bianca da Cesi Amoretti è sospesa accanto al segno precario, isolato e scandito fotograficamente da Plinio Mesciulam, che pone in luce la sua vitalità creativa anche nelle sezioni successive, mentre l’acrilico bianco su bianco di Gianfranco Zappettini e la “Cronologia” (riquadri neri di tele sospese alla parete) di Walter Di Giusto si giustappongono alle coloratissime prove iperrealiste di Caminati. Appena una traccia della ricca fioritura degli anni ’80 nella tavola di Giuliano Menegon dedicata a “La casa dei doganieri” di Montale e nella sequenza di griglie animate da piccoli nodi rossi e neri di Enzo Carioti, cui fanno contrappunto il vitale iperdecorativismo di Antonio Porcelli e la intrigante installazione Angelo Pretolani intitolata “Vive le cannibalisme”, una fascina avvolta nella bandiera italiana sotto la scritta “sopravvivo al rogo, ebro d’immortalità”. S’incrociano nella sezione riservata all’ultimo decennio i lunghi, cupi totem di Lamberto Pellegrini, le sapienti ambivalenze fra immagine e informe di Roberto Merani e di Pietro Geranzani, gli interventi fotografici di Lucrezia Salerno. Chiudono la rassegna le silenziose pagine del “Libro”, istoriato in vetro su metallo da Piergiorgio Colombara, e la installazione di Loredana Galante che fonde un suono monocorde al fremito di piume multicolori racchiuse in teche attraversate da flussi d’aria compressa. s.r. (gennaio 2001)





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