BENGT LINDSTRÖM
Archiviata senza rammarichi la frenesia "mondiale" che durante l'estate scorsa aveva indotto le amministrazioni locali a mimare un attivismo inusitato allestendo mostre-fotocopia in cui venivano esibite le collezioni dei musei cittadini, va prendendo avvio in questi giorni - nelle gallerie private - la nuova stagione espositiva. L'ouverture, va detto, è tutt'altro che fiacca, a riprova di una professionalità che non si lascia demoralizzare dalle geremiadi sul declino della città. Se l'acuto viene dalla "prima" italiana di Jean-Marc Bustamante, in corso alla Locus Solus, molte altre gallerie si sono assestate ad un livello "alto": Studio Ghiglione ha presentato Isgrò (con le "cancellature" ed i "particolari" su cui s'impernia la produzione concettuale dell'artista negli anni '70) ed espone ora le "coperture" di Rotella, risalenti ai primi anni '80; l'Unimedia ricorda i vent'anni di attività esponendo le scatole d'artista raccolte da Caterina Gualco; il Vicolo ha ospitato una rassegna di collages e disegni di Lindsay Kemp in concomitanza con la rappresentazione di "Onnagata", il suo nuovo spettacolo, al Teatro della Tosse. Uno spazio di tutto riguardo (ed è cosa abbastanza inconsueta) viene riservato alla scultura con le mostre di Carlo Lorenzetti alla Ellequadro e di Consagra alla Cesarea. Ai giovani ha pensato invece la Duemme, organizzando una personale di Hossein Golba - artista di origine iraniana residente ormai da tempo a Milano - in parte dislocata alle cisterne di Santa Maria di Castello. Così anche la Pinta, che ha riaperto con un'installazione di Chiara Dynys.
Ma, in tanto fervore, le novità più eclatanti vengono dalla recente inaugurazione di due nuovi spazi. La galleria di Palazzo Negrone, che si propone di portare avanti un discorso sul design più avanzato ed ha tuttavia organizzato, come prima manifestazione, una mostra di un pittore colombiano abbastanza convenzionale, Abel Quezada. E la galleria Orti Sauli, con sede nell'omonimo viale, tra il Parco Serra e Via San Vincenzo. Il "lancio" di quest'ultima ha comportato risvolti spettacolari. Talvolta grevi, come l'insistenza sulla partecipazione di Sgarbi, deus ex machina inflazionato, o la sveglia lanciata a pagamento "ad una Superba che dorme", rivelatisi nondimeno efficaci in un contesto ipnotizzato dagli standards salottieri propagati dai canali televisivi, come attesta la calca registrata in occasione del vernissage.
Al di là dell'effetto Sgarbi - che in catalogo si è prodotto in una paginetta di mestiere, zeppa di espressioni accattivanti quanto prive di reale significato, fra le quali mette conto di citare, a titolo d'esempio, l'aforistica asserzione secondo cui "la pittura è finita in un grido, e non resta che il buio" - la galleria esordisce con una mostra di rilievo dedicata all'opera ultima di Bengt Lindström, artista svedese sessantacinquenne (è nato nel 1925 a Lund), trapiantato a Parigi, il cui lavoro s'inserisce a pieno titolo nell'area di operatività tesa fra gestualità informale e figurazione primitivista che CoBrA ha indicato, negli anni dell'immediato dopoguerra, come uno dei luoghi centrali della ricerca artistica contemporanea. Sebbene a quell'Internazionale degli artisti sperimentali suscitata nel 1948 da Dotremont, Noiret, Jorn, Appel e Constant non abbia direttamente preso parte (vi avevano invece aderito i conterranei Max Walter Svanberg e Anders Österlin), Lindström ne assume i moduli espressivi, l' "automatismo fisico" della traccia pittorica teorizzata da Asger Jorn nel suo "Discours aux pingouins", la luminosità violenta del colore puro, la semplificazione e la distorsione della figura, tramite elementare, immediato, alla "profondità nativa delle cose". E vi innesta un estremismo materico ("due tonnellate di colore, metà sulla tela, metà al diavolo", ha scritto Alechinsky) del tutto peculiare, che invera la proposizione di Appel - artista in più d'un tratto affine - per cui "nella creazione poetica, il problema non sta nel vincere la materia, ma nel liberarla". I volti, i corpi non sono rappresentati da Lindström in uno spazio, sia pure virtuale, ma tendono a coincidere con il campo pittorico, a farsi "esperienza spaziale che prende forma umana". Un'esperienza che assume tangibilmente al proprio interno le valenze sensuali d'un colore che si addensa nei profili delle figure, di un'istintualità che - nota Luciano Caprile - sa "incidere gli sguardi e le coscienze".
s.r. (1990)