Hozro: materiali sulle arti visive a Genova







LUCIO POZZI: PAPER TRAIL

L’arte deve fare a meno dello stile? Può prescindere dall’originalità e dalla coerenza? Indubbiamente sì. A ben vedere è proprio quello che ha sostenuto lungo tutto l’arco del ‘900 una parte non trascurabile delle avanguardie: quelle, in particolare, che hanno lavorato sulla crisi del suo modello auratico, dal Dadaismo a Fluxus. A rammentarcelo viene ora, con nuovi modi – briosi ma al tempo stesso acuminati – un artista nomade nelle espressioni quanto nella vita reale, trascorsa fra Europa e Stati Uniti: Lucio Pozzi, che espone a Villa Croce la sua “paper trail”, una pista tracciata fra i suoi lavori su carta dal 1951 al 2005.
Se nel 1917 a fare scandalo era stato il tentativo di Duchamp di esporre a New York, sotto lo pseudonimo di R. Mutt, un orinatoio in ceramica di produzione industriale alla prima mostra annuale della Society of Independent Artists, negli anni ‘80 erano invece - con un singolare ribaltamento - i suoi acquarelli d’impianto paesaggistico esposti in uno spazio di punta, legato alla Minimal Art, come la John Weber Gallery, a sollevare controversie nella cerchia elitaria dei cultori d’arte. Ma l’approccio di Pozzi si spinge al di là della propensione al rovesciamento concettuale: è piuttosto una risposta alla scomparsa, nella modernità, di un’idea condivisa d’arte e di parametri idonei a consentirne la valutazione, che lascia a fronteggiarsi la libertà creativa dell’artista e l’opinione soggettiva dello spettatore, in un dialogo senza possibili mediazioni.
In questo scenario l’autore intuisce “di non poter contare che sulle condizioni specifiche, ogni volta diverse”, degli eventi singoli che crea. “I materiali, i processi, i concetti con cui lavoro – dice – non sono al servizio di finalità esterne. Sono semplicemente la miniera dalla quale estraggo gli ingredienti che uso per fare quello che faccio”.
Il lavoro di Lucio Pozzi non si articola, quindi, come m,essa in pagina di un progetto o come traccia visiva di un indirizzo di ricerca; pur prendendo le mosse dal repertorio della pittura si definisce piuttosto come una “situazione” entro la quale l’artista si trova immerso e cui reagisce immaginativamente.
Sebbene, paradossalmente, finiscano per soddisfare quella stessa esigenza di commento - imposta dal distacco dell’arte contemporanea dal comune sentire - che si prefiggono di stigmatizzare, le tesi avanzate da Pozzi costituiscono nondimeno un antidoto ludico al tedio inflitto al pubblico da una disseccata “tradizione del nuovo” ed alle mutilazioni della sfera creativa volute dal mercato.
Antidoto che spiega apertamente il proprio effetto salutare nel vagabondaggio proposto da Robert Knafo (il critico newyorkese cui si deve la cura e l’allestimento della mostra) nelle sale del Museo. Ci si muove così fra le prime esperienze pittoriche degli anni ’50, segnate dal passaggio dalla figurazione alle declinazioni astratte, e il riaffiorare del paesaggio negli acquarelli dipinti nella seconda metà del decennio successivo. Si attraversano sequenze di lavori a grafite d’impronta minimalista e ironici collages d’oggetti (cerotti, bustine di zucchero, solette da scarpe ecc.) per passare poi a gouaches a spessi tratti neri dove il nucleo naturalistico od antropomorfo s’innerva d’implicazioni fantastiche. Per chiudere con fotomontaggi incentrati sullo spiazzamento (ritratti paralleli di donne e uomini cui vengono scambiati gli occhi) o su riconfigurazioni ambigue (come nella serie dedicata ai frammenti architettonici).
Non sappiamo se, procedendo su questa via, l’artista arriverà nel 2410 – raggiunto il traguardo de “I Primi 475 Anni della Sua Vita e della Sua Arte” – a sentirsi, come auspica, “immensamente libero”. Siamo però convinti che sino ad allora saprà sottrarsi - grazie alla sua strategia multicentrica - ai vincoli di un cliché definitivo. Come scriveva il pittore americano Charles Demuth in un breve componimento d’epoca dedicato a Richard Mutt (alias Duchamp): “I più si arrestano e si danno uno stile” ma, fortunatamente, “per qualcuno non c’è pausa”.

s.r. (2006)





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