PINKSUMMER APRE CON LA NINTENDO GENERATION
Dopo la Generazione perduta, tenuta a battesimo da Hemingway nella Parigi degli anni ‘20, e la Gioventù bruciata, che si è specchiata nel volto fascinoso e triste di James Dean, un nuovo marchio si va affermando nella fase di trapasso al terzo millennio: quello della “Nintendo Generation”, allevata a videogiochi e manga, walkman e cartoni animati giapponesi. All’incidenza di questo fenomeno, tanto diffuso da passare inosservato, ci riporta non uno studio sociologico ma una mostra d’arte contemporanea che segna l’avvio dell’attività di Pinksummer, un nuovo centro (con sede al numero 2 di via Lomellini) promosso da Antonella Berruti, critica, e da Francesca Pennone, direttrice della New Santandrea di Savona, una delle gallerie italiane più sensibili alle nuove tendenze internazionali.
“Domina l'idea che l'arte contemporanea sia una sorta di pratica esoterica, avulsa dalla realtà” - affermano le curatrici – “di fatto, invece, il linguaggio delle arti visive è un corpo composito, permeabile all'ambiente e inscritto nel proprio tempo. Gli artisti contemporanei aiutano a percepire aspetti quotidiani che talvolta non è sufficiente vivere per comprendere appieno”. Ciò che appunto fanno i protagonisti della rassegna, Takashi Muratami e Miltos Manetas, rispecchiando la dimensione peculiare in cui si muovono oggi i “giovani tecnomaniaci” per i quali il gioco assume i contorni di “uno stato di trance che rende labili i confini tra la realtà e l'area parallela”, virtuale.
Takashi Murakami, nato nel 1962, è divenuto da qualche anno una star in Giappone (gli è stato autorevolmente attribuito nel suo paese il titolo di “re” degli Otaku, i giovani fanatici “collezionisti di cose insulse”) grazie soprattutto alla creazione di DOB, un personaggio di derivazione disneyana, tutto testa e orecchie, che si moltiplica fra tele, portachiavi, orologi e mousepads. Un nuovo stereotipo pop, le cui fattezze, riprodotte su un grande pallone riempito di elio, campeggiano sospese a mezz’aria in galleria, celando sotto l’accattivante tratto infantile un larvato accento critico.
“DOB è sempre confuso”, dice Murakami. “E’ un ritratto del giapponese d’oggi. E’ gradevole ma privo di significato. E non capisce niente della vita, del sesso e della realtà”.
Miltos Manetas (1964), greco di stanza a New York, dipinge nature morte tecnologiche, popolate di cavi e PlayStations, di monitor e tastiere, raffigurando il proprio scenario domestico di costruttore di città virtuali (ne ha progettata una, “Chelsea”, visitabile sul sito www.activeworlds.com, insieme a Ginger Freeman e all’architetto Andreas Angelidakis). “Credo che sia importante dipingere Powerbooks e Quicktables 100 perché in questo modo entrano nella realtà, come Marylin dopo che Warhol la dipinse”, ha scritto Manetas. Ma anche nel suo approccio, accanto all’apprezzamento per le opportunità offerte da Internet e per la dimensione ludica dei programmi digitali, affiora una nota di perplessità. Testimoniata dalla performance allestita per l’inaugurazione (una ragazza giapponese intenta a giocare a “Supermario”, un gioco Nintendo in voga anni fa’, proiettato sul muro) percepita dagli spettatori come una sequela ripetitiva di gesti senza scopo, e dal grande vibracolor sullo stesso tema, una sorta di cartolina dalla preistoria del decennio appena trascorso.
s.r. (marzo 2000)