NAKIS PANAYOTIDIS: VIAGGIANDO LA LUCE
“Diventi quello che sei”: questo responso della
Pizia, sacerdotessa del tempio di Apollo a Delfi, campeggia nella sala centrale
della mostra di Nakis Panayotidis in un’opera che assume il senso di
un’interpretazione - direttamente suggerita dall’artista – dell’orientamento e
della valenza profonda del suo lavoro.
Uscito diciottenne dalla “Grecia bizantina”, nella seconda metà degli anni ’60, quando la
dittatura dei colonnelli risuscitava un dispotismo d’altri tempi, per seguire
gli studi di architettura al Politecnico di Torino, Panayotidis iniziava in
Italia a confrontarsi con una cultura in cui agiva il filtro della tradizione
rinascimentale, che muovendo da una rilettura dell’ellenismo si indirizzava
verso la modernità, per spostarsi quindi a Berna, nel cuore della Mitteleuropa,
dov’era giunto alla ricerca della tomba di Bakunin e dove nuovi legami
familiari l’hanno indotto a stabilirsi.
Da questo percorso fisico ma soprattutto spirituale
attraverso il continente, l’artista greco-elvetico trae le tensioni da cui è
animata la sua ricerca, il suo continuo divenire sé stesso attraverso la
moltiplicazione dei punti di vista e delle esperienze. Che - come lui stesso
afferma in una conversazione con Viana Conti, curatrice della rassegna –
seguono un percorso inverso rispetto a quello tracciato da De Chirico verso una
rifondazione mitologica. “E’ partecipando del presente e non di un passato
mitico che io sfioro la dimensione archetipica del tempo in cui vivo. Da sempre
accade quel che è accaduto e che sta accadendo ora. Allo stesso modo una mia
opera è senza inizio né fine, eppure la considero compiuta”.
Così nelle sale della Loggia degli Abati, aperta
dall’inquadratura della fiancata di una nave, la cui scansione di oblò e
finestre gioca con l’alternarsi di strisce bianche e nere dell’ambiente,
immagini fotografiche di cantieri e miniere abbandonate, sormontate da elementi
metallici e luci al neon, si sostituiscono a scritte incise in lastre di piombo
o su cartoni catramati (“Kiriaki: Ston Kipo”, 1997). Si mescolano, in esse,
affinità con i linguaggi dell’Arte povera e memorie delle iscrizioni su pietra
della Grecia arcaica.
E, ancora, una foto sgranata della Montagne Sainte
Victoire (“Luce delle mie montagne”, 1999-2000) ci riporta ai paesaggi di
Cezanne, mentre una tela aerea, che reca al centro la scritta, in cera, “Kabul”
(“La mia sensibilità d’artista”, 2003) rimanda
agli eventi bellici nel paese asiatico e, al tempo stesso, ai pretesti
afghani ricorrenti nell’opera di Alighiero Boetti, con il quale Panayotidis
aveva intrattenuto frequentazioni.
Uno scorcio urbano di Genova (un alveare di
costruzioni dove gli edifici storici appaiono sommersi dalla speculazione
edilizia degli anni ’60) è situato accanto alla scia azzurra d’una nave in
partenza, un riporto fotografico su tela emulsionata rielaborato pittoricamente
dall’artista, significativamente intitolato “Libertà, mia libertà” (2003). Di
fronte al quale non si può far a meno di ricordare una frase pronunciata
dall’autore durante la presentazione: “Con questa mostra, mi sembra di essere
finalmente arrivato in porto. Ma il porto che oggi si presenta come luogo
d’arrivo, di riposo, domani sarà un nuovo punto di partenza”.
s.r. (2003)