MICHELA PETTA
Tra le ragioni rigorose di un concretismo imperniato sugli essentialia della comunicazione visiva, su punto, linea, superficie oltre che sulle funzioni cromatiche e quelle più distesamente emozionali del processo d'astrazione dal dato di natura (o, se si vuole, più latamente, di realtà); fra la traccia automatica o magari violenta d'un gesto non irretito nei lacci della riflessione compositiva e la concettualit analitica che trova nell'atto pittorico lo spunto per una deriva di pensiero ormai quasi del tutto sganciata dalla fattualità dell'esecuzione, l'opzione che introduce nell'ambito non oggettivo un elemento di leggerezza fantastica appare solo di rado frequentata.
Forse perché l'immaginazione, nel suo dinamismo, oltrepassando le cose, le strutture, deve - come nota Bachelard - non limitarsi a disegnare ma vivere i valori astratti. Obiettivo non facile a cogliersi: appena sovvengono certe archipitture di Licini come L'incostante (1933), i mobiles di Calder, alcune sculture in plexiglas di Regina, distese nello spazio secondo un ritmo acuto e sottile.
Nel caso di Michela Petta la messa a nudo dell'elemento fantastico non è immediata, bruciante; si delinea, piuttosto, come un dipanarsi progressivo dalla cornice del vero, un trapasso in qualche modo necessario, già avvertibile nelle piegature reiterate e composte d'un panneggio tratteggiato in Accademia, destinate a smarrire il proprio referente o - per dir meglio - a svelare la propria effettiva ragion d'essere nelle forme liberate degli aquiloni, nelle sequenze triangolari che danno vita ad una sorta d'interminabile movimento alato.
"Il problema non è come finire una piega, ma come continuarla, farle attraversare il soffitto, portarla all'infinito". In questa frase di Deleuze si può forse riconoscere la chiave programmatica del tentativo sviluppato dall'artista nei suoi ultimi lavori, ove la simulazione delle cose e delle materie cede alla ricerca dell'elemento genetico della forma e insieme, senza parere, d'una valenza d'ordine cosmico. Non, probabilmente, nel senso forte, proprio ad esempio di Licini, di "conservare incolumi alcuni valori immateriali che appartengono al dominio dello spirito umano", di voler "recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo". Piuttosto, si direbbe, in quello - indiretto - che è stato definito come un "rovesciamento dei termini di realtà" per cui "ciò che è fuori per impalpabilità tridimensionale e atemporale viene a proporsi come il vero aspetto del reale" (Z. Birolli).
Esemplari in questa direzione, appaiono taluni fra i dipinti in mostra, nei quali il fascino esercitato dalla contemplazione del paesaggio si converte dapprima in scoperta dei suoi aspetti strutturali (evidenziati da tensioni lineari che rinviano all'idea d'orizzonte; da graduazioni cromatiche che ripetono il trascolorare intenso del cielo) e si ribalta infine in pura tensione ascensionale nelle traiettorie perennemente incrociate che solcano diagonalmente la superficie del quadro.
Altrove - e si tratta forse d'un passo ulteriore - l'immagine, dilatandosi, sembra ritrovare uno stato di quiete, fissarsi attorno ad un centro che preclude ogni movimento che non sia rotatorio. Dall'opposizione fra campi di colore carico e di tonalità chiare scaturisce un equilibrio compiuto in cui emerge con naturalezza, nei grandi cunei lateralmente arrotondati che appena giungono a sfiorarsi, lo schema simbolico dell'infinito, emblema perfetto di quell'unbodied joy, di quella gioia incorporea evocata da Shelley, che è caratteristica di ogni autentica esperienza creativa.
s.r. (1993)