ANNA RAMENGHI: LA LUCE DI EROS, IL VASO DI PANDORA
La penombra che avvolge, negli spazi - sormontati da volte
un tempo affrescate - di Palazzo Imperiale, "Pandora e le altre", l'ultimo
episodio del ciclo delle "Stanze di Eros" concepito e realizzato a partire dal
1987 da Anna Ramenghi, contribuisce a rivelare la natura cosmogonica depositata
nei dipinti che lo compongono.
Al di là del suo risvolto teatrale, di scenario confacente allo sprofondamento
nel sonno e all'irruzione del sogno, questa semioscurità accenna infatti, sia
pure attraverso una parvenza attenuata, ad una condizione primordiale, presente
tanto nella mitologia greca quanto nel racconto biblico. E il barbaglio di luce
proiettato sui corpi - di Venere, di Pandora - nella fisicità intensa degli
"incantesimi" e dei "monologhi" allestiti dall'autrice, ci rimanda
sotterraneamente alla identificazione orfica di Eros con Fanes, il dio sorto
dall'uovo primigenio fabbricato da Crono, il cui sembiante luminoso abbacina
la Notte, alla quale si unisce per generare il Cielo e la Terra.
Il corpo (i corpi singolarmente individuati da una pittura di espressività
estrema, tattile e cromatica) si pongono allora come ambito in cui s'incrociano
i percorsi - oltre che tra sogno e veglia - tra origine e catastrofe, tra
carnalità e trascendimento.
Con la forza di un'intuizione rattenuta ma penetrante Anna Ramenghi sembra
condensare nella forma sensibile entrambe le tesi mitopoietiche incentrate
sul corpo che Sergio Givone riprende nella parte conclusiva del suo
"Eros/ethos": quella di Walter Friedrich Otto che, definendo il mito come
teofania, ne riconosce la sede non soltanto nel linguaggio ma, prima ancora,
appunto nel corpo e quella, di matrice antropologica, di Arnold Gehlen, "che ha
al suo centro lo sguardo, capace di mediare tra ciò che sta in basso e ciò che
sta in alto, tra bisogni vitali e significati" e secondo la quale "la
conformazione del corpo può essere trasposta nel cosmo e nello spazio
abitato, così come il cosmo viene ritrovato nel microcosmo corporeo".
In questa prospettiva anche la rivisitazione della figura di Pandora acquista
un senso nuovo, che scava alla radice del racconto di Esiodo. La sua
creazione dalla terra e dall'acqua rinvia al piano della natura (marcato
nell'allestimento dalla scia che dai fiori sparsi sul pavimento si prolunga
in una sequenza di dodici tavole - intitolata dall'autrice "Roseto" -
trascorrenti dal bianco al rosso innalzata dal pavimento alla sommità della
parete), mentre la sua bellezza e la caducità che introduce nel mondo evocano
gli estremi di una corporeità che riflette la vicenda del cosmo. I corpi senza
volto, effigiati dall'artista secondo un'iconografia ancestrale, rappresentano
nel biancore perlaceo della carne il trionfo dell'una e, nello sfumare ardente
dei contorni, il presagio dell'altra. E decisiva appare - seguendo
l'argomentazione sviluppata da Giorgio Di Genova nel saggio che introduce
il catalogo - l'intima adesione dell'autrice all'ultima parte del mito, ove si
dice della chiusura del vaso. Pandora, non più funesta apportatrice di mali,
si manifesta come custode di un'invisibile speranza, del segreto da cui muove
l'amore, l'eros, che inscrive nei corpi, che insuffla nella vita la possibilità
del sogno.
s.r. (dicembre 2000)