I NOTTURNI GENOVESI DI TINO STEFANONI
Inquadrata in uno scorcio che tronca a mezzo la sagoma d'un piroscafo, una bandiera sventola minuscola a poppa. La croce azzurra in campo giallo fa comprendere che si tratta dell'insegna della Paolo Scerni, l'Agenzia che da un secolo e mezzo gestisce, per conto di Compagnie di Navigazione internazionali, servizi e collegamenti marittimi. Un'azienda longeva, dunque, ma che nel ricordare i trenta lustri d'attività, mette in mostra uno humour scanzonato augurandosi, in un annuncio pubblicato nei giorni scorsi sulla stampa, "di non incontrare Capitan Uncino per i prossimi centocinquant'anni" e dribblando ogni retorica celebrativa con il marcare - nella serigrafia commissionata per l'occasione a Tino Stefanoni - la sua rilevante presenza economica ed il "radicamento" genovese solo con un minimo triangolo di colore steso di rimpetto alla sagoma - innaturalmente bianca - della Lanterna.
Ma il lavoro dell'artista sul tema della città non si è arrestato a quest'unica opera (che sebbene legata ad un evento specifico non deborda in nulla dalla sua abituale operatività), bensì ha dato inizio ad una sorta di "ciclo" che la galleria Martini & Ronchetti espone sotto il titolo di "Notturni genovesi", aggiornamento singolare quanto involontario de "L'Italia al chiar di luna", rassegna che documenta l'evoluzione del notturno nell'arte italiana dal XVI al XIX secolo, recentemente inaugurata all'Ashmolean Museum di Oxford.
Per chi conosca le direttrici seguite da Stefanoni lungo gli anni '60 e'70 può risultare in certo modo traumatizzante l'impatto con questi coloratissimi paesaggi, che pure s'inseriscono in un filone che l'artista lombardo (nato a Lecco nel 1937) coltiva dalla metà dello scorso decennio. In definitiva, però, non si registra nel suo percorso una vera e propria frattura. Non tanto perché questo abbia preso avvio appunto dal paesaggio, dato che si trattava di una rivisitazione del tema in chiave standardizzata ove i singoli elementi - per lo più alberi, case, prati - riprodotti su discoidi irregolarmente accostati, davano luogo ad un ironico scompiglio all'interno di un'immagine spogliata delle sue componenti estetizzanti dalla ripetizione e dalla riduzione a schema grafico. Piuttosto, per la contiguità che si registra fra i quadri-campionario di oggetti (LA camicia, L'imbuto, LE tenaglie ecc.) degli anni '70, di cui si tendeva a sottolineare un valore segnaletico oggi appieno riassorbito nel software informatico, ed i caratteri "tipizzati" riflessi nell'ultima produzione.
"Tutto sommato" - dichiara l'autore - "questi lavori non fanno che travestire un nucleo concettuale che persiste. Qui ho lasciato da parte i tratti esemplari degli oggetti quotidiani per estrapolare dal quadro una serie di caratteri di base: soggetto, sfondo, colore. Senza trascurare i suoi aspetti virtuali come la luce, il volume, ecc.. E ho deciso di portarli all'estremo. Così dipingo la luce più luminosa, il soggetto più riconoscibile, i volumi più netti. E quel che realizzo non è "un" quadro ma "IL" quadro, il quadro-tipo, se vogliamo". Così sulle pareti s'allineano (per così dire, giacché in realtà figurano disposti a livelli differenti, in alto o in basso, a seconda dell'originario punto di vista) spicchi del panorama genovese, frammenti d'una skyline per noi consueta, affondati nel blu cupo della notte incipiente: il Forte Puìn sulla dorsale che a ponente sovrasta la Val Bisagno, il campanile di San Giovanni di Pré, l'abside di Santa Maria del Prato, in Albaro. Cinque pezzi in tutto, compreso quello dedicato alla Scerni ed un'altro ove, curiosamente, campeggia una borsetta. "L'ho pensato per una stilista genovese", spiega Stefanoni, "anche questa per me è una cosa legata alla città". Ed è, soprattutto, un modo di ricondurre il suo lavoro in un'area di gioco garbato e insieme smitizzante, che ribalta il fascino metafisico di questi "notturni" in una provocazione discreta rivolta contro le banalità che appesantiscono il fondo dell'immaginario collettivo.
s.r. (1990)