GIUSEPPE TRIELLI
"Ecco un frammento d'utensile, un rottame di ghisa, un chiodo torto, una scatola di zinco vuota, un palmo di spago, una scheggia un truciolo. Tutto mi parla, tutto per me è segno che so leggere. (..) Le linee espresse dall'incontro casuale degli oggetti inventano una scrittura ermetica".
Queste frasi di D'Annunzio, tratte dal Libro segreto, potrebbero costituire un'introduzione appropriata alla prima fase del lavoro svolto da Giuseppe Trielli attorno alla metà degli anni '70, quando - poco più che ventenne - iniziava il suo percorso ritraendo i materiali corrosi gettati dalla risacca sulla spiaggia o gl'intonaci sbreccati o, ancora, le fitte trame dei tessuti.
In quel momento inaugurale, la raffigurazione dilatata portava il tratto, teso e senza fine ripetuto, ad un livello d'autonomia tale da indurre "un aniconismo più che altro apparente" attraverso una "pittura che parte dai segni (naturali) per giungere all'emozione, non viceversa" (Rolando).
In realtà, la definizione di "informale-al-contrario" applicata alla pittura di Trielli - ancorché più volte ribadita nei testi critici concernenti il suo lavoro - non risulta del tutto giustificata, giacché l'intenzionalità dell'artista sembra collocarsi piuttosto nel solco dell'osservazione leonardesca sulle potenzialità suggestive delle configurazioni casuali isolate su "muri imbrattati di varie macchie o in pietre di vari misti", volta cioè a rintracciare una forma significante all'interno di una struttura amorfa.
Del tutto conseguenti appaiono quindi gl'indirizzi che la ricerca dell'artista assume negli anni '80, tesi al raggiungimento di una "forma sentita" o "rivelata", muovendo tuttavia da emergenze figurali più identificabili (fiori in terrina, paesaggi di riviera in cui prendono campo facciate di ville contornate d'alberi).
"Un muro, una finestra", scriveva Tullio Cicciarelli nel 1985, "siglano l'ambiente e mostrano anche dalla parte del pittore il valore e l'importanza dello stato d'animo. Fermare l'immagine d'una facciata vuol dire tenere sotto controllo il paesaggio con tutti i suoi contenuti e connotati".
Particolare rilievo - nel tentativo dell'artista di calarsi, empaticamente, nell'intimo della forma - assume il calibrato esercizio di modulazione cromatica inteso a restituire una peculiare vibrazione luminosa, che si coglie nei lavori degli ultimi anni, come Riflessi di maiolica (1992) dove riaffiora il segno acuto e veloce degli esordi od Anfora marina (anch'esso del 1992) in cui invece il profilo dell'oggetto effigiato sembra implodere nell'accumulo di tracce di colore.
Cruciale, in questo processo ambivalente di costruzione/dissoluzione della forma, appare la realizzazione di Mediterraneo, opera recentissima (1994), nella quale il rapporto con la figura ed il paesaggio risulta distillato non in termini di sperimentalismo linguistico bensì - piuttosto - con una sorta di adesione fisica al soggetto che riduce la profondità del campo visivo per sondare, quasi tattilmente, le impronte cromatiche di cui si compone.
Così, nell'intreccio - a tutta prima indistinto - d'azzurri e di verdi, di rossi e di bruni, ambiente e figura si sciolgono da contorni preclusivi per dar vita a quell'arte "non imitativa ma nemmeno evasiva" annunciata, negli anni '50, da Renato Birolli.
s.r. (1995)