LA STANZA VUOTA DI PAVESE
La polemica, per certi aspetti grottesca, che si è sviluppata a proposito della performance che Cesare Viel intendeva realizzare a Torino, nella stanza dell'Hotel Roma dove ebbe luogo il suicidio di Cesare Pavese, testimonia anzitutto dello scarto fra i codici propri dell'operazione artistica e la sensibilità comune. Il fatto che ad esprimere piattamente quest'ultima sia stato in realtà uno scrittore (e critico letterario) costituisce solo apparentemente un controsenso. Se Viel avesse scritto un volume od un brano drammatico sul gesto di Pavese, nessuno avrebbe reagito. Il trauma risiede nell'attivazione di un dispositivo non assimilato, in cui presenza e assenza vengono percepiti in maniera ad un tempo diretta (attraverso il luogo, scena reale dell'evento evocato) e mediata (attraverso il testo).
Nulla di vampiresco o di "pettegolo" nell'idea di leggere, in quella stanza, un testo, neppur proprio ma di Natalia Ginzburg. Tanto più quando si consideri che le altre stazioni del progetto riguardano Ingeborg Bachmann, Italo Calvino, Roland Barthes, personaggi la cui morte è dipesa da incidente o malattia. La critica che si può rivolgere a Viel è se mai di segno contrario. Di aver tenuto troppo le distanze, di essersi indirizzato esclusivamente sulle dimensioni del lutto e della memoria. Di aver disegnato una cornice troppo letteraria e definita, lontana da quegli slittamenti di senso sui quali imperniano i suoi lavori più importanti. Pur con i suoi tratti enfatici di finzione nella finzione la scena della replica dell'incidente di James Dean in Crash aveva un accento più forte.
s.r. (dicembre 1999)
CESARE VIEL: SPECCHI SCRITTI IN RUE DE VARENNE
Disseminate nei films come segnali di precarietà e di avventure clandestine, le "tracce di rossetto", impronte rivelatrici lasciate da labbra sovraccariche di cosmetico o messaggi frettolosamente vergati sui vetri, paiono conquistarsi gradatamente uno spazio fra le espressioni rappresentative di un'epoca in cui eventi e memoria perdono sempre più consistenza.
Greil Marcus già ne aveva fatto, sul finire degli anni '80, il titolo di un libro dedicato ai "percorsi segreti nella cultura del Novecento, dal Dada ai Sex Pistols", volendo far comprendere come vi siano movimenti culturali "che non sembra lascino nella storia del mondo tracce più durature" di una macchia su un mozzicone di sigaretta. Se la tesi di Marcus, che abbracciava un eterogeneo panorama di artisti (dalle avanguardie del primo '900 all'Internazionale Situazionista), grafici e musicisti punk, risulta in qualche modo forzata, l'immagine scelta per sintetizzarla ha mostrato d'aver colto un tratto non secondario del nostro tempo. Adesso questo emblema labile ma investito di implicazioni complesse, non ultime quelle erotiche, costituisce l'aspetto portante di una installazione realizzata presso l'Istituto Italiano di Cultura di Parigi - nell'ambito di una rassegna curata da Gabi Scardi, in cui sono coinvolti anche Stefano Arienti e Annalisa Cattani - da Cesare Viel, uno dei pochi giovani artisti genovesi saliti alla ribalta nazionale, sino a conquistarsi una citazione nel classico manuale di Gillo Dorfles sulle "Ultime tendenze nell'arte d'oggi".
L'opera, dislocata in due ambienti, utilizza la moltitudine di specchi incastonata nelle pareti dello storico palazzo di Rue de Varenne dove ha sede l'Istituto. Su questi Viel ha scritto, con il rossetto, una serie di frasi estratte da due video le cui immagini scorrono sui monitor collocati nella prima sala: "Androginia" (1994), un lavoro in cui l'artista è ripreso mentre recita un testo sul tema della costruzione dell'identità, doppiato nel sonoro da una voce femminile, con effetto spaesante; "Non detto", dove è invece inquadrato mentre rotola su sé stesso, in un'interminabile sequenza di capriole.
Il gioco dei rimandi implicati tende a mettere a fuoco il tema della situazione instabile del soggetto, indagato nel dialogo fra le componenti interne, nella continua ricerca di un riposizionamento attraverso gli eventi ed il rapporto con le altre individualità. Così le frasi scritte col rossetto rinviano all'impulsività del gesto ed alla precarietà del pensiero. Lo specchio (come quella sorta di specchio "in differita" che è lo schermo elettronico) evoca un riflesso illusorio, oltre all'idea di fragilità inerente al supporto. Il sovrapporsi della voce femminile alla figura maschile rimarca la dimensione plurale che alberga nella persona. Il rotolare del corpo, infine, allude ad una condizione di vorticoso e ciclico rivolgimento. Un disegno sfaccettato che conferma l'intenzione di Viel di "costruire un lavoro che non rimuova la vita di chi lo ha pensato" e di "allestire questo lavoro in uno spazio che sia stato elaborato come una scena di vita e di emozioni anche per gli altri". E dove si profila un'eco del disincanto di Montaigne, che sul finire del sedicesimo secolo scriveva: "Non c'è nessuna esistenza costante, né del nostro essere, né degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa".
s.r. (settembre 1999)