Le lettere - un tempo irrimediabilmente allineate e
come rinchiuse nelle parole - hanno conquistato nel corso del Novecento, una
autonomia, se non piena, almeno di principio. Inutile rifare la storia di
questo processo, che coinvolge taluni fra i principali movimenti d’avanguardia
del secolo. Meno scontato è che, dopo una partenza squisitamente francese sul
finire del secolo antecedente, gli autori italiani, dal Futurismo e alla Poesia
Visiva, abbiano condotto la partita, in competizione con il dadaismo (nel cui
ambito pure hanno avuto qualche parte) ed i lettristi. Ma se il nazionalismo (e
più ancora il regionalismo) è una buona merce, in arte, rimane però una cattiva
causa. L’argomento serve quindi unicamente per restituire una dimensione
appropriata, tanto cosmopolita quanto decisiva per le sorti (usiamo una volta
tanto una parola grossa) della cultura, ad una vicenda che, per averla vissuta
od osservata da vicino, pare in qualche modo legata ad un orizzonte domestico.
Per un paradosso indecifrabile i sentieri della ricerca poetica e visuale si
presentano nel contempo interrotti e però intersecati. A più d’uno di questi
incroci (con il “gruppo di studio”, “la carabaga”, “tool”, “il marcatre”)
Rodolfo Vitone ha imboccato, con altri (e questo va letto non come diminuzione
del ruolo demiurgico dell’artista ma in un’ottica di presentimento di quel
modello d’intelligenza collettiva che le reti oggi ripropongono in diversa
dimensione), direttrici fruttuose. Le sue sortite nelle discipline più diverse,
dal cinema all’happening, dal design alla critica, dalla pittura
all’insegnamento, testimoniano che la sua insistenza, nel tempo, sulla lettera
riveste una valenza essenziale. Lettere associate nel suo percorso prima al
disegno stereotipato di parti meccaniche, motori, candele e simili, poi ad
oggetti via via più metaforici (è ancora un oggetto, la rosa?), infine ai corpi
ed ai volti. Lettere che, per quanto dilatate o incidenti nel loro materiale
rilievo, sembrano scivolare via, si mascherano con le veline di dattiloscritti,
o come nelle opere ultime si coprono per svelarsi ad uno sguardo capace di
riconoscere, al di là degli schermi, queste “salamandre che – scrive Renato
Barilli – se ne vanno immuni entro un contesto quanto mai profanato, viziato da
ogni traccia e umore dell’esistenza: macchie, colate, magari brani di
scrittura, ma sorpresa quando anch’essa dà luogo ad un tessuto pittoresco,
corrosa dagli agenti atmosferici”. s.r. (aprile 2000) |