Hozro: materiali sugli artisti liguri



 

 

LA COLLEZIONE DELLA WOLFSONIAN FOUNDATION

 

Sulla collezione di Mitchell Wolfson Jr., le luci del Castello Mackenzie avrebbero dovuto accendersi nel 1992, in occasione del quinto centenario colombiano. Le difficoltà incontrate nei lavori di restauro e adattamento degli ambienti non hanno però consentito che l'inaugurazione avesse luogo in quel prestigioso contesto, del tutto appropriato per un'iniziativa destinata ad esplicarsi fra America ed Europa.

A distanza di quattro anni, poco dopo l'apertura della rinnovata sede di Miami con la mostra "Designing Modernity: the Arts of Reform and Persuasion, 1885-1945", sembra anzi profilarsi, per la sezione italiana della raccolta, un nuovo scenario, con la decisione del proprietario di proporne la donazione ad un ente pubblico locale.

I materiali conservati a Genova, dove Wolfson ha ricoperto una carica consolare e tuttora mantiene una delle sue residenze, sono riuniti da un paio d'anni in uno stabile (un ex deposito ristrutturato) in via all'Asilo Garbarino, sulle alture prospicienti il porto. Se questa nuova sistemazione ha consentito i primi contatti con il pubblico degli studiosi, non ha tuttavia permesso di stabilire  quel rapporto con la città che si cerca  d'instaurare  ora,  presentando  una  campionatura della collezione a Palazzo Ducale in  una mostra che aprirà a fine giugno.

E' dunque quasi del tutto sconosciuto l'insieme di oltre seimila pezzi (arredi, quadri, sculture, disegni e maquettes architettonici, ceramiche, vetri, smalti, ferri battuti, oggetti d'uso quotidiano) raccolti da Wolfson nell'intento di analizzare  attraverso una sorta di "cronaca per immagini" del periodo che dagli ultimi decenni del secolo scorso si estende sino agli anni del secondo conflitto mondiale - le relazioni intercorse fra i movimenti estetici e le trasformazioni tecnologiche, politiche e sociali.

 

Ad eccezione di una stanza disegnata da Ernesto Basile e realizzata in rovere da Ducrot per un appartamento al Viminale – un bell'esempio di arredo dei primi anni del secolo, caratterizzato dalla elegante semplicità delle linee - parzialmente ricostruita in una sala di rappresentanza,  e d'una singolare opera (1895 c.)  di  Carlo Bugatti, un contenitore d'incerta funzione posto su un alto piedistallo ornato in forme pre-déco, collocato anch'esso al primo piano, i mobili sono custoditi in un grande loft accanto all'ingresso, stipati in scaffali che arrivano ad otto metri d'altezza.

In questo vertiginoso    - quanto ordinato - accumulo d'arredi si scoprono, fianco a fianco, le sedie d'impianto razionalista progettate nel 1929 da Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini per gli uffici torinesi di Riccardo Gualino, il mecenate del "Gruppo dei Sei", e quelle, contraddistinte da interessanti spalliere a barre orizzontali distanziate da elementi circolari, realizzate da Marcello Piacentini come dono di nozze per la figlia di Margherita Sarfatti, biografa del Duce e banditrice del movimento pittorico del "Novecento italiano". Od accade di trovare le linee rigorose dei sedili di Piero Bottoni per la Casa Bedarida a Livorno (1937) accanto agli arguti e coloratissimi sgabelli antropomorfici foggiati da Antonio Rubino, il creatore di Quadratino e di Viperetta, per una camera d'infanzia (1921 c.).

Un ripiano intero    è occupato dal cassettone "Ninive" che - insieme ad un letto sormontato da una massiccia testiera a piramide - il pittore bolognese Fabio Fabbi disegnò attorno al 1890 per la famiglia Gonzaga di Guastalla, facendovi intarsiare una veduta della capitale assira che, nei suoi tratti spiccatamente fantastici, sembra prefigurare gli scenari di "Cabiria".

Vuoto il posto d'uno dei pezzi più prestigiosi: una credenza di Joseph Maria Olbrich, l'architetto del Palazzo della Secessione a Vienna, in mostra a Torino nel 1902 nell'Esposizione Internazionale d'Arte Decorativa Moderna, fra le suppellettili della "Hessisches Zimmer" ("Camera assiana") allestita dalla colonia artistica di Darmstadt, attualmente in Florida per "Designing Modernity". A documentare l'apporto della Secessione austriaca rimane così principalmente l'armoniosa cassapanca (1908) di Leopold Bauer, impreziosita da pannelli, con intarsi in avorio e madreperla, in cui sono raffigurate scene di danza.

Altri mobili presenti all'Esposizione di Torino, momento decisivo per l'affermazione dell'Art Nouveau in Italia (recentemente rievocata con una mostra alla Promotrice di Belle Arti di quella città), sono la "Camera stanza da letto per signorina" di Ugo Ceruti, improntata ad una chiarità di toni e ad una leggerezza di profili che le valsero un diploma d'onore, nonché lo studio (comprendente una scrivania e due piccole librerie in mogano) dell'ungherese Odon Faragò.

Di grande impatto visivo la credenza e la panca esposti da Vittorio Zecchin alla prima Biennale di Arti Decorative tenutasi a Monza nel 1923, la cui struttura elementare diviene sfondo per una elaborata, sinuosa decorazione di soggetto marino, ove la lezione di Klimt, assorbita dal pittore negli anni Dieci, si coniuga a cadenze mutuate dalla tradizione paesana all'epoca in voga.

Un esempio di arredamento, progettato in rapporto alla configurazione architettonica degli spazi e con riferimenti ideali all'attività esercitata nell'edificio, è offerto dai bozzetti e da taluni dei mobili eseguiti da Duilio Cambellotti fra il 1931 ed il 1934 per il Palazzo dell'Acquedotto Pugliese a Bari, nei quali l'artista romano sintetizza genialmente monumentalità arcaica e modernismo déco.

Non mancano infine manufatti curiosi come la sala da pranzo per i coniugi Anzellotti (1932) di Umberto Bartoli, scultore d'ambito fiorentino, già collaboratore presso la Bottega dei Coppedé, ornata di figure ed emblemi sportivi, od esempi dell'artigianato ligure: dalle tradizionali "chiavarine" al secretaire (1879) della Premiata Fabbrica di Mobili di P. Campodonico, ancora di Chiavari, che dissimula vani e cassetti in un'imponente quinta turrita.

 

Mentre per ciò che riguarda gli arredi, come s'è visto, prevale nel coté genovese della collezione di Mitchell Wolfson una tendenza omnivora, negli ambiti della scultura e della pittura emergono opzioni più delimitate e precise.

Scartata - per il taglio consapevolmente assunto, inteso a documentare attraverso oggetti d'arte e di design le trasformazioni sociali, politiche ed economiche del nostro passato recente - la via maestra della raccolta di capolavori, rimanevano due possibili chances. Rivolta, la prima, alle esperienze formate nell'intento di dar corpo allo spirito dell'epoca, investendo con un approccio totalizzante  le diverse branche delle arti visive e sceniche (Futurismo, Costruttivismo, De Stijl, Bauhaus). La seconda invece orientata all'impiego della comunicazione estetica al servizio di un fine politico.

La scelta di quest'ultima risulta senz'altro più coerente al progetto complessivo, oltre che più adeguata alle opportunità offerte dal mercato. "E' chiaro - commenta Franco Sborgi, docente di Storia dell'Arte Contemporanea presso l'Università di Genova - che questo criterio di selezione si ripercuote, in una certa misura, sulla qualità dei singoli pezzi. Sovente le opere che presentano risvolti propagandistici non raggiungono un livello artistico elevato. Ma una raccolta come quella di Wolfson va giudicata non dai capolavori che può contenere ma nell'insieme, che è di grande interesse, stimolante nel panorama italiano, ancora non assuefatto ad una impostazione trasversale ed interdisciplinare come la sua".

Effettivamente, lavori estremamente significativi sul piano documentario - come La battaglia del grano (1935) di Cesare Andreoni, esponente del Secondo Futurismo, o l'Autoritratto con paesaggio e ritratto di Mussolini (1930) di Gerardo Dottori - non sembrano elevarsi di molto al di sopra della routine.

E così avviene, tra le opere di scultura, per il  busto di Mussolini, convenzionale benché  modellato  da uno scultore di gran nome (Troubetzkoy), o per il bronzo di Attilio Perducca che ritrae Filippo Corridoni.

Ma appunto la presenza di opere di questo tipo si converte in un'ulteriore opportunità per la raccolta, che appare in grado di espandersi nelle direzioni più varie, senza andare incontro a troppo gravi squilibri interni.

"Nell'ipotesi che il Comune di Genova o la Regione Liguria accettassero la donazione proposta da Wolfson - dice ancora Sborgi - si potrebbe pensare ad una sorta di Museo del Novecento, unico oggi in Italia, integrando la collezione con materiali provenienti, per esempio, dal Museo del Risorgimento che - nato come Museo della Guerra - dispone di un importante fondo di disegni su questo tema o dai depositi della Galleria d'Arte Moderna".

In ogni caso, è già merito non da poco aver raccolto testimonianze futuriste (rafforzate dalla recente donazione di Osvaldo Peruzzi), del tutto assenti dai musei genovesi. Spicca, nel comparto, che si completa con manifesti e pubblicazioni celebri, del genere de L'anguria lirica (1934) "litolatta" di Tullio d'Albisola e Bruno Munari, Il grande nocchiere (1940), di Ernesto Thayaht, un'opera dove la retorica del regime, incentrata sulla corrusca figura del timoniere che si staglia fra mare e cielo, a dominare - spezzando catene e barriere - il continente europeo, trova  nella simultaneità della composizione una notevole sintesi formale. E, fra gli inediti, va menzionato almeno Volo radente (1942), una concitata aeropittura di Alba Giuppone.

Non mancano peraltro, anche al di fuori della tendenza futurista, lavori di grande portata. Fra questi va citato, in primis, L'idolo del prisma (1925) di Ferruccio Ferrazzi, opera centrale nel percorso dell'artista romano, divenuto nel 1933 Accademico d'Italia, che vi celebra la luce e l'oggettività della visione, ricomponendo "in questo frammento della natura ... come in uno specchio moltiplicato una realtà sfaccettata e, proprio per questa ragione, magica" (M. Fagiolo).

Più strettamente correlato all'ambito genovese, Il cantiere (1905) di Plinio Nomellini, opera in sé compiuta ma utilizzata come bozzetto per uno dei due dipinti di grande dimensione (ora ospitati nella sala conferenze del Museo di Sant'Agostino) commissionati all'artista livornese dalla Municipalità di Sampierdarena, da poco a maggioranza socialista, in uno dei brevi momenti di sincronia fra avanguardie politiche ed artistiche. Alla stessa dimensione ideale appartiene La fabbrica (1901) di Galileo Chini, che con Nomellini ebbe lunga collaborazione, dal progetto urbanistico per Lido di Camaiore, realizzato agli inizi del '900, alla famosa Sala del sogno, allestita alla Biennale di Venezia del 1907 con l'ausilio anche dello scultore Edoardo De Albertis, pure presente nella collezione con un tondo in bronzo (La Gran Madre, 1918)  ove le sinuosità liberty paiono cedere ad un'espressività più tagliente.

Altri autori familiari al pubblico cittadino sono documentati al meglio: da Eugenio Baroni con il bozzetto de La Vela (1933/34), la grande scultura realizzata per lo Stadio dei Marmi a Roma, a Giuseppe Cominetti, con Le giocatrici di volano (1914), uno dei dipinti del periodo parigino nei quali (come in Rugby, Podisti al traguardo, Boxe, tutti dello stesso anno)  l'artista applica il suo tratto energetico, sintesi della scomposizione cromatica divisionista e del dinamismo di Boccioni, al tema sportivo.

Davvero non può negarsi l'attenzione appassionata di Wolfson alla cultura figurativa genovese del primo Novecento. Ne fanno fede l'acquisto di un bel Ritratto di signora (1925) di Cornelio Geranzani e di tre opere importanti di Sexto Canegallo: La folla, un quadro di grande dimensione dipinto attorno al 1920, e - dello stesso periodo - Zircone e Diamante, solcati da una luce radiante che, dipartendosi dalla gemma, dissolve l'allegorica figura femminile sullo sfondo.

Già esposti da Emilio Bertonati nella mitica "Genova tra Simbolismo e Futurismo" che, poco meno d'una ventina d'anni fa'  aveva rilanciato, dalla sponda milanese, Chin, Cominetti, Geranzani e, appunto, Canegallo, questi lavori potrebbero costituire un'ideale conclusione di questo rapido regesto se già non premessero alle porte altre donazioni, un po' da tutta Italia. Del giuliano Krischan, del livornese Mazzei, dello scultore veneziano Tony Lucarda, fra gli altri. Mentre la biblioteca si espande grazie ad un lotto di volumi offerti da Germano Celant.

 

Mentre per ciò che riguarda gli oggetti d'arredamento, le pitture e le sculture, l'acquisizione è avvenuta - salvo casi sporadici - per singoli pezzi, nella raccolta dei materiali architettonici  stato seguito un principio diverso, che privilegia - sul documento isolato, per quanto prestigioso - una dimensione più estesa ed organica.

"Quando Mitchell Wolfson Junior fondò la Wolfsonian nel 1986 - scrive la direttrice, Peggy A. Loar - fu subito dichiarata la volontà di acquisire archivi che rappresentassero l'opera di un artista, per far sì che studenti e studiosi potessero compiere le loro ricerche sui maggiori e - molto più importante - sugli artisti minori per il periodo che va dal 1885 al 1945".

Ciò nella convinzione che un'analisi "orizzontale" - condotta cioè in profondità, "rifacendosi in qualche modo contemporanei di quanto si studia" e rifiutando invece un'attenzione soltanto "verticale", vale a dire "fondata solamente sul tipo di conoscenza e di dimensione degli avvenimenti quale si è sedimentata nel tempo" (Crispolti) - potesse migliorare la comprensione dei fenomeni artistici e storici.

La prima acquisizione ha riguardato l'archivio di Attilio Calzavara  (architetto e designer attivo in particolare nel campo dell'allestimento di grandi mostre nazionali ed internazionali dagli anni '30 alla scomparsa, avvenuta nel 1952), i cui materiali sono stati divulgati nel 1994 attraverso la pubblicazione di un volume curato da Enrica Torelli Landini, "Enrico Calzavara. Opere e committenza di un architetto antifascista".

Sono poi venuti, grazie a donazioni effettuate dagli eredi, due archivi di notevole importanza per la ricostruzione delle vicende architettoniche genovesi.

Il primo, già catalogato da due giovani laureati grazie a borse di studio della Fondazione, riunisce i progetti di Beniamino Bellati (Milano 1895 - Genova 1953), autore - fra l'altro - dei due palazzi, attigui alla sede dell'Industria Italiana Petroli, costruiti dall'Impresa Ugo Jacazio nello scenario piacentiniano di Piazza della Vittoria nonché della Casa del Fascio di Via Saluzzo.

Raccolta nel secondo è invece l'opera di Giuseppe Crosa di Vergagni (Belluno 1886 - Genova 1962), progettista della Fontana di Piazza De Ferrari e del Palazzo per gli uffici dell'Ilva in Via Corsica, "dichiaratamente monumentale con compiaciute rivisitazioni neoclassiche" ma che denota, come ha scritto Francesca Ghigliotto, "scioltezza nel declinare in chiave modernista la tradizione classica genovese". Fra i materiali dell'archivio, che comprende anche i disegni per la neogotica palazzina dello Yacht Club, il plastico del nuovo Seminario arcivescovile, sopra Via Chiodo, ultima realizzazione dell'autore.

Di recente è stato acquistato un altro importante compendio documentale: le carte dello Studio Fineschi, nel quale figurano gli schizzi per il Palazzo della Questura e l'adiacente scalinata verso il colle di Carignano, realizzate da Alfredo Fineschi negli anni Trenta, ed i progetti per il discutibile Palazzo della Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, a ridosso di Piazza De Ferrari.

La propensione per traiettorie conchiuse non ha certamente impedito l'accumulo di altre testimonianze eterogenee: dagli allestimenti creati, nel loro tipico stile eclettico, dai Coppedé per gli interni di transatlantici come il "Vulcania" ed il "Conte Verde" al mastodontico modello, lungo più di sei metri, del ponte sullo Stretto di Messina  concepito nel secondo dopoguerra dall'architetto Armando Brasini, già Accademico d'Italia, in forme  del tutto anacronistiche.

Mentre alcuni bozzetti virano decisamente verso l'immaginario, come le "Fantasie d'architettura - Schizzi e prospettive", tracciate da Aldo Avati per l'omonimo volume pubblicato a Torino nei primi anni del Novecento, Virgilio Marchi riprende nel grande disegno dedicato al Palazzo dell'Aria (1929), l'utopia tecnologica futurista, documentata in città, per i suoi risvolti teatrali, anche nella raccolta del Museo Biblioteca dell'Attore.

Esempi della grande committenza pubblica sono offerti da prospetti di Ulisse Stacchini per la facciata della Stazione Centrale di Milano (1912-31), ove la destinazione utilitaristica dell'edificio viene dissimulata nella sovrabbonzanza e dal plastico di Michele Busiri Vici per il Padiglione Italiano all'Esposizione Universale di New York del 1939, elaborazione non troppo originale del linguaggio classicista prediletto dal Regime che trova un ideale contraltare negli studi di Enrico Prampolini per il Padiglione dell'Autarchia nella Mostra del Minerale (Roma, 1939) ove si può cogliere l'ispirazione meccanomorfa dell'artista modenese. 

Impossibile o quasi un censimento del comparto delle arti applicate, affollato da migliaia d'oggetti, talora anonimi e dozzinali (benché caratteristici dell'epoca, come le numerose suppellettili modellate sul fascio) ma spesso di eccezionale qualità. Particolarmente vasto il settore delle ceramiche, nel quale ai manufatti ascrivibili alle diverse tradizioni regionali s'affiancano lavori d'autore. Tullio D'Albisola è presente con un grande vaso portaombrelli del 1932, dl vivace cromatismo, decorato nella parte superiore con motivi geometrici; un altro futurista, Romeo Bevilacqua con due piatti in terracotta maiolicata (Motociclisti; Partita di biliardo, entrambi collocabili fra il 1932 ed il 1934). Di Giovanni Battista De Salvo s'incontra un presepe degli anni '30 fortemente segnato dall'impronta martiniana. Duilio Cambellotti è autore della Veilleuse delle civette (1924), tipica della sua inclinazione a raffigurare, non senza risvolti simbolici, le specie animali. Da citare, ancora, alcune formelle decorative di Corrado Cagli.

Fra i vetri spicca la Medusa (1901), realizzata per le Vetrate Artistiche Giovanni Beltrami di Milano da Guido Zuccaro, sulla base del disegno, di palese matrice simbolista, di Giovanni Buffa. Mentre, nell'ambito dei lavori in metallo,  un vero capo d'opera s'identifica nella filiforme Fontana (1925) déco in ferro battuto di Carlo Rizzarda, in cui l'artista, "aderendo ad uno schema tipico del nuovo stile, ha incluso la decorazione entro cornici regolari - ovali, tonde, bislunghe -  al centro della costruzione, mascherando nel contempo la modestia del materiale con patine verdi e dorate" (I. De Guttry, M.P. Maino).

Qui ci arrestiamo, per non tediare all'eccesso il lettore. Rimane la suspense: Genova, che anni fa' ha perduto la Collezione Della Ragione ed il Museo Sperimentale promosso da Eugenio Battisti saprà trattenere la Collezione Wolfson?  Le preclusioni culturali che (specie nel secondo caso) ebbero un ruolo non secondario appaiono superate.  Ma potrebbe nascere la tentazione di accampare ragioni di bilancio ...

 

 

s.r. (1996)





HOME PAGE

ARCHIVIO ARTISTI

MOSTRE A GENOVA