GIANFRANCO ZAPPETTINI: ANTOLOGICA A VILLA CROCE
"Artista dai grandi contrasti": così Guido Giubbini caratterizza la figura di Gianfranco Zappettini, nell'introdurne l'antologica allestita presso il Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce. Contrasti che potrebbero addirittura apparire inconciliabili se una ricerca costante sul tema della luce, fisica ed interiore, non legasse fra loro le diverse fasi dell'opera, al di là dell'avvicendarsi di momenti d'espressione calda e controllata, del soffermarsi sui meccanismi o sulle risonanze della percezione.
A ben vedere, infatti, l'unica effettiva digressione nel percorso dell'artista genovese è rappresentata dal momento figurativo risalente ai primi anni '80, "pittura in radice", secondo una formula allora coniata da Achille Bonito Oliva. Mentre i tratti informali delle primissime opere (1962) debbono ricondursi ad un apprendistato svolto entro i canoni dominanti dell'epoca e non assumono quindi particolare rilievo, tutti gli svolgimenti successivi, dalle "Vibrazioni" (1967) ai "Processi analitici" (1976), da "Le mie immagini da Sant'Andrea di Rovereto" (1978) al ciclo "Sullo sfogliar del fato" (1994), si pongono - con l'eccezione di cui s'è detto - sotto il segno di una problematica luministica che nel tempo acquisisce una marcata valenza simbolica.
Rimane comunque la complessità di una ricerca dalle molteplici sfaccettature, che dapprima si orienta su modalità contigue all'arte "optical" pur mantenendo memoria dell'astrattismo storico (pensiamo soprattutto a Itten e, quindi, a Vasarely) per calarsi quindi, agli inizi degli anni '70, in quelle pratiche analitiche da cui è venuta all'artista la consacrazione internazionale con le mostre "Geplante Malerei" curata da Klaus Honnef a Munster nel 1974 e l'invito alla Documenta VI (Kassel 1977).
Nelle "Luci bianche" (1973), l'originario impianto geometrico è ridotto ad una scompartizione del quadro attraverso segmenti lineari bianchi che vengono fatti risaltare sul fondo, realizzato con strati di bianco sovrapposti a rullo su una base nera, grazie ad un'ultima stesura. Nelle "Superfici" (1974) l'artista utilizza le possibilità dell'acrilico contrapponendo campiture (sempre strettamente bianche) in rilievo ad altre piatte. Particolarmente rigorose le sequenze ottenute con la ripetizione meccanica di segni di "grafite 2b" incolonnati sino a ricoprire l'intera estensione del quadro, da cui prendono le mosse esperimenti di "ibridazione fra lo specifico della fotografia e della pittura" ove segni pittorici vengono - come puntualizza in catalogo il curatore, Guido Giubbini - "ingranditi fotograficamente e messi a confronto con la loro trascrizione", ovvero "una pellicola fotografica viene grattata e rifotografata sino a raggiungere un bianco pittorico".
Proprio il carattere estremo di questa ricerca ha probabilmente indotto per reazione il passaggio alla figurazione, che avviene tuttavia per gradi, attraverso una fase (quella appunto delle "immagini da S. Andrea di Rovereto") dove l'elemento naturalistico viene ancora analiticamente scomposto, indagato da angolature e con modalità diverse.
Attorno al 1980 Zappettini intraprende, con Enzo Cacciola e Walter Di Giusto, un percorso all'interno della figurazione in cui sperimenta cadenze espressive diverse: il realismo fotografico di "Zoagli, 29 dicembre 1980", in cui l'autore ritrae sé stesso con gli amici sulla spiaggia; l'ironico citazionismo di "Hallo!" (1982), scena di ballo alla Fred Astaire; le atmosfere romantiche saggiate in "Non si può toccare un fiore senza turbare una stella" (1983), scorcio boschivo con enigmatiche statue, rapportabile forse alla collaborazione con l'artista tedesco Volkert Tannert, approdato in quegli anni in Riviera.
Gi nei barbagli che in quest'ultima opera attraversano la cortina dei rami s'avverte peraltro una ripresa dell'interesse per la luce, che di là a poco assumerà tonalità incandescenti ne "L'amore del fuoco segreto" (1985), dove il dato formale si lega ad una ricerca spirituale d'intensità profonda.
Lungo questa direttrice si dispiega il lavoro sviluppato nel decennio in corso. Le trasparenze liquide di "Sullo sfogliar del fato" si convertono nelle superfici granulose e opache dei quadri del ciclo recentissimo intitolato "Al fine che traspare". Ma l'accento è posto, al di là dell'arabesco o del ricorrente simbolismo del cerchio, sul punto di luce rossa, viola, gialla, dei petali che sembrano adagiarsi sui fondi grigi; sul "debole chiarore radente" da cui questi stessi spazi sordi sono attraversati "come se - ha scritto Mara Borzone - un raggio di luna li colpisse in diagonale".